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L’estetica di Masterchef e i piatti dello spirito

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Matteo Sarlo

 

Una cosa è certa: guardare Masterchef ti fa venire una fame da matti. Le tagliatelle integrali al ragù di pesce e finta besciamella della tirocinante avvocato Cristina, il ricordo d’infanzia di Gloria, il piccione in agrodolce di Valerio. Nel corso di tutta la Mistery Box, la prima prova che i concorrenti devono affrontare, la telecamera si muove a destra e sinistra seguendo il passo lentissimo degli Chef stellati tra i banchi dei loro scolari da interrogare. Vapori, emulsioni, fritture, frullati, riduzioni. Un turbinio di colori e forme che correresti immediatamente ai fornelli. Se solo sapessi rifare quella roba là, è chiaro. E se possedessi una dispensa con tutti gli ingredienti. Data l’incapacità (problema 1) e l’impossibilità (problema 2), l’unica strategia che mi pare funzioni è eseguire due precise azioni in rigoroso ordine cronologico: ordinare una pizza bottarga e pinoli prima che inizi e, soltanto dopo, vedere il programma in differita alle ventidue e dieci. Dopo seguono due ore durante le quali le uniche tue speranze nella vita sono che quello per cui fai il tifo venga risparmiato dalla saggezza insindacabile e imparziale dei giudici (Cracco ripete spesso, siamo qui a giudicare i piatti non le persone anche se in un’occasione ha provocatoriamente sostituito giudicare con assaggiare giocando con il suo ruolo di sex symbol), e viceversa che massacrino quello che proprio non reggi. La seconda si verifica più spesso. Se non altro perché distruggono più di quanti ne salvano. Non solo per la loro rigorosa precisione ma perché il format del programma è strutturalmente verticale: da 20 ad 1. E non solo. Per entrare nella brigata di Masterchef gli aspiranti chef devono sostenere casting, super casting, live cooking e Hangar.  Prove su prove per guadagnarsi il grembiule bianco. Soltanto 20 avranno la possibilità di entrare nelle cucine di Masterchef. Di quei 20 ne viene fatto fuori uno a puntata.

La puntata

Ogni serata-Masterchef si costruisce su un blocco di due puntate strutturate di norma sulla stessa scaletta: Mistery box, in cui i concorrenti devono saper inventare una ricetta con ingredienti segreti o seguire una specifica direttiva dei giudici, Invention test, in cui può venire uno Chef ospite che propone tre piatti al vincitore della Mistery, il quale dovrà sceglierne, per sé e per tutta la squadra, uno da interpretare o da rifare. Chi sbaglia, torna a casa.
Inizio puntata due. Si apre con una sfida in esterna formata a squadre. I componenti della squadra perdente andranno al Pressure test. I due peggiori del Pressure test al Duello. Chi sbaglia, torna a casa.

Segreto 1: lo storytelling

Ogni puntata è registrata ed è un capolavoro di montaggio, alterna le scene in cui si cucina con le interviste. Ma queste non sono un confessionale e la logica di Masterchef non è paragonabile a nessun altro tipo di reality. Gli aspiranti Chef hanno solo pochi minuti, se non secondi, a disposizione. Non hanno il tempo per scenate o piazzate. Si lasciano anche andare ad apprezzamenti verso i loro rivali ma gli conviene utilizzare quello spazio per parlare della loro cucina. Ed è qui che inizi ad appassionarti. Tutti vogliono raccontare qualcosa. Ognuno a suo modo. C’è l’irruente Valerio che possiede ancora intatta l’autosufficiente ingenuità del ragazzino mista a un talento propulsivo, c’è la precisione di Cristina, tirocinante avvocato in uno studio di San Marino, c’è la lucida crudeltà di Gloria.
E del grande romanzo che è ciascuno i piatti sono dei brevi paragrafi, alcuni pubblicabili altri da riscrivere da capo. È una delle prime fascinazioni di Masterchef, ascoltare le storie di ciascun personaggio. Alle volte le battute che dicono sono platealmente imboccate ma non importa. Te ne infischi. La verità non è una virtù quando si tratta di storie.
Ma questa è solo una prima impressione. Immediata, superficiale, e non caratteristica del solo Masterchef. Non è questo il vero motivo dell’enorme successo del programma comparso per la prima volta sulla BBC nel 1990. La logica del formato non si esaurisce neanche lontanamente nello storytelling personale di ciascun partecipante. Perché più che chiederti se Valerio, Loredana, Gloria, siano o no legati a qualcuno, perché avranno deciso di venire a Masterchef, cosa faranno dopo, ti chiedi come diamine riescono a preparare i piatti che preparano. Ma il punto è esattamente questo. Che diamine ci importa di come preparano quei piatti? Sì, sicuramente un campione di fan della cucina c’è sempre stato, ma perché improvvisamente ci si incuriosisce tutti insieme di come è fatta una salsa bernese alla perfezione o come si preparano delle polpette inattaccabili o come si sfiletta il salmone reale?
Dietro Masterchef c’è qualcosa di più che trascende persino le logiche televisive. Un segreto che è custodito in uno scrigno ben preciso, un buco nero che attira a sé tutto il resto: lo scrigno dei giudici.

Segreto 2: i giudici

Tutto in Masterchef va velocissimo. Il montaggio accentua la rapidità delle sequenze: cambi, tagli, microinterviste. La musica incalza. Un orologio segna il tempo rimanente, che viene costantemente urlato a turno da uno dei giudici. L’iconico mancano solo 5 minuti con la i lunghissima, trattenuta fino all’ultimo, di Chef Barbieri manda tutti nel pallone. Tutti corrono, tranne loro. E non perché non facciano nulla. In una puntata di Masterchef 5 (siamo arrivata in Italia alla sesta edizione) è Bruno Barbieri a dimostrarlo: vanno lenti anche in cucina, pur chiudendo il piatto in metà tempo di un cuoco “normale”. Barbieri è un uomo lucido e estroso. Uno di quelli che possono indossare collane senza fare la figura di Al Capone. Un Robert Downey Junior della cucina. Nella puntata si è messo in gioco. Ha il compito di cucinare assieme agli altri. Stessi ingredienti: prugne, crescenza, patate, rapanelli, anguilla e palle di toro. Stesso tempo: 60 minuti. Inizia il cronometro. C’è chi corre con un wok e una padella tra la indice e medio della mano destra mentre con l’altra regge una scodella . C’è chi ancora schizza in dispensa e chi gira e si rigira l’anguilla tra le mani nella speranza di capire quale sia il taglio migliore. Barbieri lascia tutto lì e se ne va a fare un giro in dispensa. Ne esce fuori in tutta calma con un piccolo vassoio. Se lo porta su una poltroncina e si beve un caffè prima di iniziare. Posata la tazzina ritorna ai fornelli e conclude prima degli altri. Il risultato, un piatto perfetto.
Un recente film di fantascienza In Time, con Justin Timberlake e Amanda Seyfried, ci aiuta a spiegare che cosa è successo. Andrew Niccol, il regista del film, immagina un futuro in cui la valuta corrente non sia più il dollaro, l’euro, lo yen o il rublo ma il tempo. Il problema è che oltre ad essere una valuta il tempo conserva in ogni caso anche il valore di durata della propria vita: finito il conto in banca, finito il “denaro” a disposizione, moriranno. Quelli che ne hanno molto, i ricchi, vivono in eterno, gli altri vanno avanti di giorno in giorno. I primi camminano lentamente. I secondi, corrono.
La logica è esattamente la stessa, basta sostituire le categorie di ricchezza e povertà con quelle di amatorialità e professionalità. Gli uni si affannano, arrancano, tentano di recuperare andando ancora più forte. Gli altri non commettono errori, vanno lentissimi. Ed ecco il vero insegnamento di Masterchef: ci vuole sì una tecnica spaventosa per arrivare a quel livello là, ma il piatto riuscito, il piatto migliore, si costruisce nella mente.

Segreto 3: Il passaggio

Ecco il vero segreto implicito di Masterchef. Ecco che cosa è accaduto. Ecco perché improvvisamente ci interessa capire come si prepara una polpetta perfetta. Ecco il presupposto sotteso, accettato, che rende Masterchef una bomba di seduzione. Questi signori qui non sono soltanto cuochi. Non sono soltanto qualcuno che è in grado di prepararci un piatto molto buono, molto più buono, anche, di quello di nostra nonna. Questi signori qui sono artisti. Non cucinano, creano. Non producono materia, ma arte. E tu sei incantato a guardarli come se fossi nello studio di Philip Roth a vederlo battere la prima riga di Pastorale Americana (per inciso un incipit da farti saltare su dalla sedia).
Massimo Bottura al momento di essere insignito miglior ristorante al mondo nel 2016, con 3 stelle Michelin e un punteggio di 20/20 nella guida L’Espresso, dopo aver ringraziato tutti i suoi collaboratori, ha dichiarato che il suo lavoro è soprattutto un’opera d’arte. Ma non è una sorpresa. Lo chef modenese ha più volte dichiarato che nel suo ristorante, l’Osteria Francescana, non si preparano i piatti per saziare lo stomaco ma l’anima.
E quindi cosa serve un ristorante stellato? La risposta è inequivocabile e ce la fornisce lo stesso Cracco attraverso il sito del proprio ristorante dove, la classica scritta Menù è sostituita dalla voce Idee. Uno ristorante stellato serve le idee del suo chef. Il piatto nella sua materialità per la gran parte lo prepara poi la brigata al suo comando. Ma non importa, quel che importa è quello che trascende la materia. Il piatto perfetto, il piatto al suo culmine, non è solo esteticamente bellissimo ma è quello ideale.
Ora, ovviamente esistono molti altri ristoranti stellati che conservano la scritta classica Menù sul loro sito. Ma il “caso” è la sintesi di un passaggio: dal corpo sensibile all’immaterialità dell’idea. In un ristorante stellato non stai pagando quelle cifre esorbitanti (in un ristorante a due stelle Michelin ogni piatto sta sulle 45-50 euro mentre si raddoppia per un ristorante a 3 stelle) perché hai fame. In un ristorante stellato stai pagando per lo spirito: non saziare il corpo ma l’anima. Ci vuole una tecnica spaventosa per riprodurre i piatti di uno come Cracco e come Bottura, e probabilmente è impossibile se non sei uno come loro. Senza dubbio. Ma anche se ci riuscissi, anche se lo rifacessi alla perfezione, non saresti Cracco e Bottura perché il quid di quel piatto è l’originalità della sua idea nativa. Saresti solo il copista che era in grado di rifare il Tondo Doni di Michelangelo. Non pochissimo, ma nulla di più.

Il problema dell’arte

Josef Beuys, uno dei più grandi pittori e scultori del novecento, diceva: Jeder Mensch kann Künstler sein, «ogni uomo può essere un artista». Il corollario qual è? Tutto può essere arte. E aggiungerei: tutto può essere arte oggi. Hegel colloca l’arte in uno stadio molto avanzato, appena un passo indietro alla religione negli stati finali dell’itinerario dello Spirito in cui la storia è giunta alla sua fine. Compresa la storia dell’arte. Per utilizzare una sua bella formula, la storia è divenuta per noi passato. Ora, la tesi è ovviamente azzardata ma non del tutto priva di senso. Davanti ai quadrati di Mondrian, o dell’espressionismo astratto di Jackson Pollock, come puoi apprezzarne la bellezza? In senso classico non puoi. In questo senso Hegel aveva ragione, la storia dell’arte, nel senso del progressivo modello vasariano di approssimazione alla realtà, è completamente andata in pezzi. Mondrian o Pollock ma anche Fontana di Duchamp, un banale orinatoio piazzato in un museo, non li puoi guardare, li devi pensare.

La legittimità: concetto o esperienza?

Ora, è noto che Mondrian, Pollock, Duchamp, siano a tutti gli effetti considerati tra i più grandi artisti del XX secolo. Eppure nella fruizione comune, quella non di settore, c’è ancora dell’astio nei loro confronti. In fondo quell’accozzaglia di colori come la puoi mettere sullo stesso livello della Cappella Sistina?
E per quanto riguarda il cibo? lo spiritualizzarsi del piatto è legittimo o no? Può davvero un piatto sfuggire alla binaria logica facebook mi piace/non mi piace? E una roba che mangio può diventare pensiero?
Per ora la risposta sembra affermativa: il cibo è passato dalla materia al concetto. Chapeau, nuovi artisti della contemporaneità.
Ma a questo punto nasce spontanea un’altra domanda: perché Mondrian, Pollock, Duchamp non vengono ancora pienamente “digeriti” mentre Cracco, Barbieri e Bastianich sì? Perché quello che vale per Cracco non vale per Pollock? Forse perché il primo è ancora un’avanguardia, si ascrive quindi in opposizione ad un codice dominante, mentre il secondo nasce già pienamente dentro l’assenza del grande codice. In questo senso è indicativo che Beuys, di una decina di anni più giovane di Pollock, pensasse l’arte come un’arma puntata contro il nemico (eine Waffe gegen den Feind).
E se allora l’enorme consenso che ricevono i nuovi artisti dei fornelli indicasse un’ulteriore trasformazione: dall’arte come concetto di Beuys, Mondrian, Duchamp, Pollock all’arte come esperienza, senza nemico, sempre rinnovabile, sempre del tutto mia?
Forse oggi più che mai funziona il motto di Beuys, pur se sostanzialmente riconfigurato: ogni uomo può essere un artista.


Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passagi sul vuoto, un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia.

MATTEO SARLO:
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