Seguici

Le elezioni europee e il tesoro dei poveri
03/06/2019|L'ANALISI

Le elezioni europee e il tesoro dei poveri

elezioni europee

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Sergio Benvenuto

Commentando i risultati delle elezioni europee del maggio 2019, l’economista Thomas Piketty – autore del celeberrimo Il capitalismo nel XXI° secolo – afferma lapidariamente che:

“le diseguaglianze sociali e le politiche fiscali fanno vincere Le Pen, Salvini e i sovranisti in Europa”. Ovvero “Buona parte del rifiuto dell’Europa è dovuto al sentimento di ingiustizia fiscale. Il voto per i sovranisti rispecchia perfettamente il livello di reddito e di diploma”. La collera che alimenta i nazionalismi sarebbe fomentata dall’assenza di un modello sociale e fiscale più giusto. Piketty ricorda che dagli anni 1990 in poi le diseguaglianze sono aumentate nei paesi più industrializzati, e che “la nuova contrapposizione politica è tra classi lavoratrici e classi più privilegiate che detengono un patrimonio.” Per cui l’unica soluzione contro l’ascesa dei populismi e dei sovranismi sarebbe proporre un modello fiscale ed economico più equo.

Anche se fatte da un economista famoso, si tratta delle più classiche e scontate affermazioni che parte della sinistra – in particolare quella radicale – ripete da anni per spiegare la conversione delle masse lavoratrici ai partiti populisti o di estrema destra. Tuttavia questa soluzione – più eguaglianza economica – fa acqua da tutte le parti.

Se alla base della svolta, in quasi tutti i paesi occidentali, di tanti lavoratori che da sempre votavano socialista o comunista verso partiti e movimenti di destra ci fosse una protesta contro le crescenti diseguaglianze (che indubbiamente ci sono), dovremmo aspettarci che questi partiti e movimenti invochino una redistribuzione delle ricchezze e una maggiore giustizia fiscale (far pagare più tasse ai più ricchi). Ora, si dà il caso che questi partiti e movimenti, premiati dal voto, non abbiano affatto questo programma. Al contrario, in Italia Salvini promette la flat tax che, di fatto, è un modo per far pagare meno tasse ai più ricchi. Non diversamente dalla riforma fiscale portata avanti da Trump negli Stati Uniti. Così come non mi risulta che Le Pen e il suo partito abbiano in cima al loro programma una maggiore giustizia fiscale.

Come è noto, quel che persuade dei programmi di estrema destra sono essenzialmente tre punti: “Basta con gli immigrati! Rimandiamoli a casa”, “Basta con l’Europa che ci dice che cosa fare, vogliamo tornare alla sovranità delle nazioni” e “Più controllo poliziesco della criminalità spicciola”. Questi tre progetti non hanno nulla a che vedere con una redistribuzione delle ricchezze. Ma appunto, gli intellettuali di una certa sinistra in realtà non capiscono affatto perché queste rivendicazioni facciano tanta breccia proprio tra le classi subalterne.

Bisogna dire che uno dei partiti populisti, Il Movimento Cinque Stelle (M5S), aveva nel proprio programma il reddito di cittadinanza, una misura che, tutto sommato, puntava a una certa redistribuzione della ricchezza (lo stato deve dare un reddito minimo a chi è sotto un certo livello di povertà; un reddito che pagheranno i nostri figli, dato che va sul conto del debito pubblico). Sorprende che la sinistra non abbia appoggiato, in qualche modo, questa misura. In effetti il M5S nel primo anno di governo ha reso operativo il reddito di cittadinanza. Il risultato è che alle elezioni europee è sceso dal 32,6% – percentuali di voti ottenuta alle politiche del 2018 – al 17,6%. È come se anche chi ha cominciato a incassare il reddito di cittadinanza avesse smesso di votare per chi glielo ha fatto avere, preferendo magari i neo-fascisti di Salvini. Potremmo anche ricordare che durante la presidenza Hollande, dal 2012 al 2017, il governo francese varò una serie di misure economiche egualitarie, sovra-tassando i patrimoni più ricchi, più o meno come raccomanda Piketty. Il risultato è stato che il partito socialista al governo ha avuto alle elezioni del 2017 poco più del 6%, dal 28,6% che il socialista Hollande aveva ottenuto al primo turno delle presidenziali nel 2012. Insomma, non mi pare affatto che gli elettorati oggi premino partiti e movimenti che seguono le affermazioni di Piketty.

Purtroppo spesso la sinistra manca – non meno della destra – di spirito critico. Per spirito critico intendo la capacità di mettere in questione, anche mettere in crisi, le proprie credenze e certezze quando la realtà smentisce queste credenze e certezze. Ora, per il pensiero tradizionale di sinistra le ineguaglianze economiche sono l’aspetto assolutamente più fondamentale della politica. La storia è storia di lotte di classe, insomma c’è un primato dell’economico. Sulla base di questo presupposto filosofico, anche la conversione massiccia di tanti poveracci alle proposte della destra nazionalista viene vista in chiave economica: la gente esprimerebbe così un’esigenza di maggiore eguaglianza economica.

In realtà, proprio le elezioni europee del 2019 hanno segnato non tanto un arretramento delle sinistre moderate socialiste e socialdemocratiche, quanto soprattutto una minimizzazione delle forze di estrema sinistra, di quelle insomma che la pensano come Piketty. “La Sinistra”, la lista italiana alla sinistra del PD, non è andata oltre l’1,74%. Il Labour Party di Corbyn – spostato su un programma di sinistra radicale – ha perso oltre il 10% scendendo al 13,6% dei voti. In Spagna Podemos – il partito radicale della sinistra populista – ha perso l’8% dei voti scendendo al 10,1%. In Germania la Linke – il partito alla sinistra dei socialdemocratici – è ridotta al 5,5%. Quanto alla Francia, il partito di estrema sinistra (LR-LC) non va oltre l’8,5%. Certamente in molti paesi c’è stata una buona affermazione dei partiti verdi, ma non possiamo dire che una maggiore eguaglianza economica sia in cima alle rivendicazioni ecologiste, le quali puntano a una difesa dell’ambiente che va a vantaggio di tutte le classi sociali. Gli intellettuali di certa sinistra dovrebbero ammettere che la rivendicazione “più eguaglianza economica” interessa sempre meno le masse, soprattutto quelle meno abbienti. Perché, come diceva Ernst Bloch, non si vive di solo pane, soprattutto quando non se ne ha.  La verità è che oggi chi ha un reddito e un livello di cultura inferiori, se vive in un piccolo centro, non aspira a una maggiore eguaglianza per tutti, ma a cacciar via gli immigrati, ad avere uno stato più poliziesco, e a fare a meno dei tecnocrati multinazionali, rinchiudendosi nelle proprie specificità nazionali o addirittura regionali.

L’eguaglianza economica oggi è calcolata dal coefficiente Gini: più è alto questo coefficiente, meno egualitario è un paese. Grazie a questo coefficiente, sappiamo che, per esempio, il paese con le maggiori diseguaglianze al mondo è il Sudafrica, seguita da Namibia e Haiti. E che il paese più egualitario al mondo è l’Ucraina, seguita da Slovenia e Norvegia. Ora, vado spesso in Ucraina, e posso dire con certezza che praticamente nessuno degli intellettuali ucraini che ho incontrato è consapevole del fatto che il loro paese sia il più egualitario al mondo; anzi, sono convinti che sia un paese con stridente diseguaglianze. Insomma, l’eguaglianza che è in cima alle preoccupazioni della sinistra è un dato in fin dei conti statistico, che non corrisponde alle percezioni reali della gente. Le statistiche sono molto utili e interessanti, ma non riscaldano il cuore. Mentre avere meno immigrati nella propria città e avere l’impressione che i ladri vengano acciuffati, queste cose sì che scaldano i cuori. Per chi è povero, l’importante non è sapere che il coefficiente Gini del proprio paese sia alquanto basso, interessa uscire dalla povertà. Al povero non interessa sapere che la sua distanza economica tra lui e Jeff Bezos (attualmente l’uomo più ricco del mondo) aumenti o diminuisca, gli interessa avere 100 o 200 euro al mese in più.

Questa sopravvalutazione del fattore economico da parte della sinistra è un paradigma comune anche alla destra liberale. In effetti, sia la destra neo-liberista che la sinistra hanno un punto fondamentale in comune (ragion per cui sono oggi viste come due facce della stessa medaglia): entrambe sono convinte che quel che conta nella storia, in fin dei conti, è l’economia. Chi è di sinistra è convinto che un certo livellamento dei redditi sia la soluzione ai problemi dell’umanità; chi è di destra liberale è convinto che tutto andrebbe per il meglio se lo stato intervenisse il meno possibile nei meccanismi economici spontanei del mercato. Il primato dell’economico è il dogma che, in qualche modo, unisce sinistra e destra diciamo “rispettabili”. Ma la crescita dei populismi e dei neo-fascismi poco rispettabili dimostra che questo dogma non descrive la realtà. I fattori culturali – il credo religioso, la morale sessuale, le preferenze estetiche, la visione della propria “identità”, ecc. – sono cose non meno importanti, nella politica e nella storia, dei conflitti economici. L’essere umano non è solo homo oeconomicus.

Accade così che masse sempre più rilevanti, nelle società industriali, cessano di essere proletari e diventano identitari. Gli “identitari” sono in fondo i nuovi poveri. I voti per Trump, la Brexit, Marine Le Pen, la Lega, l’Afd tedesca, ecc., sono voti identitari. Una parte considerevole di quel che si chiama populismo è in realtà identitarismo. Gli identitari si contrappongono a quelli che chiamerei “globalizzati”, e non è detto che costoro siano più ricchi: sono comunque persone aperte in senso cosmopolitico. I “globalizzati” votano piuttosto per la sinistra, gli ecologisti e la destra liberale. Bisogna capire le ragioni profonde di questa conversione identitaria da parte dei “proletari”.

I proletari erano così detti perché possedevano solo la propria prole. In effetti, fino a non molto tempo fa, più si era poveri, più si facevano figli; i poveri di danaro erano ricchi di prole. Oggi nei paesi più industrializzati anche i poveri fanno pochissimi figli. Ai più poveri resta un’unica ricchezza di cui vantarsi: la propria “identità”. Ovvero, essere romano o siciliano, essere italiano o tedesco o americano, essere tifoso della squadra del Milan o della Juventus, essere cattolico o islamico…  Le identità, a differenza della prole, costano poco o niente, e danno onore a chi si “identifica”. La sinistra, costituita sempre più da intellettuali e colletti bianchi, disprezza le identità e quindi gli identitari; quindi i poveri da una parte e la sinistra dall’altra non parlano più la stessa lingua. La sinistra predica un’eguaglianza astratta che non parla al cuore, perché ciò che parla al cuore della gente, soprattutto se manca di cultura, è da una parte avere di più (che non implica essere più eguale agli altri), e dall’altra sentirsi uniti ad altri grazie a una comune appartenenza simbolica. Non importa a cosa appartenere, l’importante è appartenere, che implica sempre un essere-contro, un contrapporsi (per questa ragione Trump, ad esempio, aumenta la sua popolarità scegliendo di volta in volta degli essere-contro: contro l’Iran, contro l’Europa unita, contro la Cina…) Gli stessi leghisti che qualche anno fa si sentivano appartenere alla Padania versus il Meridione, oggi si sentono appartenere all’Italia versus l’Europa; non diversamente dal fatto che essere oggi per la squadra del Napoli significhi essere versus la Juventus. Invece la logica della sinistra, moderata o radicale, governativa od oppositiva, è internazionalista, il suo codice genetico è espresso dalle vecchie canzoni anarchiche: “Nostra patria è il mondo intero / nostra fede è la libertà”. Un ideale da benestanti, da jet set, non da “identitari”, i nuovi poveri. L’identità è ormai il tesoro dei poveri.

 

Sergio Benvenuto è psicoanalista, filosofo e saggista italiano. Già Primo Ricercatore presso il CNR a Roma, dirige lo ”European Journal of Psychoanalysis”.  Tra i suoi volumi più recenti, La psicoanalisi e il reale. “La negazione” di Freud(Napoli: Orthotes, 2015); What Are Perversions? (London: Karnac, 2016); Leggere Freud (Napoli: Orthotes, 2018) e Godere senza limiti. Un italiano nel maggio 68 a Parigi (Milano: Mimesis, 2018).

Nessun commento
Condividi