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Il Labirinto: Architettura, Cinema, Vita
22/09/2017|L'ANALISI

Il Labirinto: Architettura, Cinema, Vita

Il Labirinto: Architettura, Cinema, Vita

illustrazione di Chabacolors
parole di Matteo Sarlo

Karl Kerény è convinto che il labirinto sia qualcosa di più di una serie di scelte da compiere. Dalla storia del Minotauro al labirinto dell’Overlook Hotel di Kubrick, dalle tavolette di cera ai labirinti di Inception. Perché il labirinto è la figura della nostra intelligenza.

Èinevitabile, non puoi dire «labirinto» che subito l’altro pensa soltanto a una cosa, una soltanto: il maledetto Minotauro. E tu che stai lì a tentare di condividere un tuo problema e hai fatto soltanto l’errore di metaforizzare troppo. Niente, quell’essere ibrido è già lì. Certo, dal 2006 magari nella forma del Fauno di Ofelia, ma tant’è. Il discorso è ormai naufragato e quel minimo di attenzione esaurito del tutto. Del resto Samivel ne è convinto, «la leggenda del labirinto e del Minotauro è il racconto più popolare dell’antichità». Quindi non è che sia proprio colpa tua. È che c’è, in quella storia, qualche cosa che resiste e non scompare. Una traccia ctonia che permane, contro le onde del tempo. Perché il labirinto è qualcosa di più che un percorso dove ci si può perdere. Perché il labirinto è qualcosa di più di una serie di scelte da compiere. Qualcosa di più, persino, di una fila di sbagli ricorsivi. Perché un labirinto – ed è Karl Kerény a dirlo – è la figura della nostra intelligenza.

Unicursali e Multicursali

Ma che cos’è, più concretamente, un labirinto? Stando all’Oxford Dictionary: «una strada complicata, irregolare, con molti passaggi, attraverso o intorno ai quali è difficile trovare la via senza una guida». Ma tale definizione, che certo ha il merito della sintesi, dimostra il limite del dizionario come concetto: l’illusione che la verità della cosa salti dalla definizione della cosa stessa. Un presupposto/problema su cui si è incagliato il Wittgenstein del Tractatus, per dire. Ad ogni modo, non solo un labirinto può essere disegnato su carta, pur rimanendo un labirinto, ma c’è almeno un tipo di labirinto che non è sussunto sotto questa definizione. È quel che si chiama labirinto unicursale, utilizzando la classificazione di W.H. Matthews in Mazes and Labyrinths. A General Account of their History and Development. Una cosa grosso modo così:

Non si tratta qui di perdere la via e non è nemmeno necessario entrarci con una guida. Si tratta soltanto di seguire la rotta che dall’esterno porta al centro. I sentimenti che abitano questo luogo sono in ogni caso quelli della paura, dell’ignoto, e del salto improvviso. Ma a meno che qualcuno non abbia messo un mostro al centro del labirinto, la strada di entrata è la strada di uscita.

Un labirinto multicursale è invece un percorso che impone delle scelte, che instilla dubbi. Ci sono molte strade ma soltanto una è quella che conduce all’uscita.

I labirinti, questi luoghi che li diresti figli possibili soltanto di una pura razionalità, di una meschina azione calcolante, sono però generati anche per natura. Tra i labirinti più noti quello di Postumia. Oltre 5 chilometri secondo il cammino turistico. Sommando però ogni via, ogni biforcazione, ogni vicolo cieco, si arriva oltre i 20 chilometri di rocce calcare, di grotte e gallerie. Qui, secondo Paolo Santarcangeli, nella sua poderosa ricostruzione del labirinto come simbolo, potresti trovarci un «rinophagus, piccolo crostaceo bianco che nuota solo su un fianco» oppure potresti seguire i movimenti misteriosi di un titanethes albus, «dal corpo somigliante a quello di un porcellino».
Ci sono poi le grotte di Aggtelek. Il fiume che vi scorre viene chiamato Stige. L’altro corso d’acqua che vi si affianca è Acheronte. La sovrapposizione evidente è con il mondo infernale, quindi notoriamente un mondo che sta al di là del mondo.

Viscere e Conchiglie

Ma i labirinti possono essere anche, con Santarcangeli: geometrici e irregolari; a schema fisso o irregolare; a svolte rettangolari, curve o miste; rettangolari, circolari o di altra forma; simmetrici o misti; compatti, diffusi o misti; labirinti acentrici, mono- e policentrici. Ecco, proprio i labirinti che hanno un solo centro potrebbero non essere considerati, nei fatti, dei labirinti. Ma è certo che i disegni preistorici a spirale più diffusi sono stati rinvenuti sulle rive del Mediterraneo. Ci sono allora probabilità che lo schema di queste figure sia una copia delle conchiglie marine, di cui non a caso è noto il valore sacrale su cui Mircea Eliade ha scritto Immagini e Simboli. Saggi sul simbolismo magico-religioso.

Stando a Karl Kerény, un’altra strada da percorrere, per una possibile genetica della figura della spirale, è quella del ritrovamento agli inizi del secolo scorso, di alcune tavolette di argilla dagli scavi in Mesopotamia. Secondo alcuni testi cuneiformi, risulta che la spirale non fosse altro che la rappresentazione delle viscere degli animali offerti in sacrificio, sulla base delle quali gli aruspici leggevano il futuro. Il labirinto era allora, possiamo metterla giù così, una sorta di traduzione della traduzione del futuro. È stato poi chiamata questa forma originaria (Urform) “palazzo delle viscere”. Vale a dire? Il mondo degli inferi che si rapporta in modo benevolo o meno con il mondo dei vivi a seconda delle loro curve e forme. In ogni caso, il labirinto è qualcosa che ha a che fare con un piano che eccede la materia. Il labirinto ha a che fare con un mondo ultrasensibile.

(Come) si esce dal labirinto, Jack Torrance?

In effetti un trucco ci sarebbe. Secondo l’algoritmo di Trémaux, cioè la regola di Trémaux e Maurice: 
«E sufficiente e necessario svolgere i due percorsi di ogni cammino di andata in senso contrario e non prendere l’andata che ha condotto per la prima volta a un incrocio, se non quando non resta la scelta di un’altra via. Supponiamo che, perduta la strada nel labirinto, si depongano all’ingresso di ogni nuovo cammino due segni e all’uscita da esso tre segni oppure uno, a seconda che il cammino sbocchi in un nuovo incrocio o in un incrocio già esplorato; inoltre, ogni qual volta si imbocca una strada in cui si trova un solo segno all’ingresso, se ne deporrà un secondo. In tal modo, si sarà certi di trovare l’uscita, senza passare più di due volte per ciascun cammino, se si osserverà la regola seguente: arrivando un incrocio, si prenderà a caso uno dei cammini non segnati o un cammino che ha un solo segno o, se non ce n’è nessuno, si prenderà il cammino che ha tre segni».

Se si seguono queste indicazioni, si riuscirà a trovare l’uscita del labirinto. Se il labirinto non ha uscite, si tornerà allora all’entrata. Ma qual è il senso dell’algoritmo di Trémaux? Che ogni labirinto è una scrittura criptata. Ogni labirinto è, in un certo senso, un racconto scritto in una lingua sconosciuta. Per leggere il racconto, e arrivare alla fine, è necessario conoscerne l’alfabeto di base. È necessario decrittarlo, il labirinto.

Purtroppo per lui, Jack Torrance/Nicholson, il custode invernale dell’Overlook Hotel, non è uno studioso di simboli. Ci fosse stato Langdon/Tom Hanks, magari, ma tant’è. Pagherà Jack il prezzo del labirinto, quello di siepi attorno all’hotel certo – nel quale morirà pazzo e assiderato – ma soprattutto quello dell’altro labirinto, il labirinto perfetto, il labirinto assoluto, il labirinto senza uscita ma nemmeno senza ingresso, dove si è sempre già entrati e da dove non è possibile uscire: l’Overlook Hotel. 
Del resto, in una sequenza a nemmeno mezz’ora dall’inizio del film, è Wendy Torrance a confessarlo a Dick Hallorann, il cuoco dell’albergo, durante un giretto di visita della cucina. C’è Wendy, C’è Dick, e c’è il piccolo Danny.

Questo il dialogo:

Dick: «Che ne dici Danny, è abbastanza grande per te?»
Danny: «Sì. È la più grande che ho mai visto.
Wendy: «Sì, fa paura. Un enorme labirinto. Mi dovrò riempire le tasche di briciole di pane altrimenti mi ci perdo qui.»

La sequenza è costruita con la camera che segue la “passeggiata” dal davanti. L’effetto è quindi, per chi guarda, uno straniante passo all’indietro, curve continue e strade interrotte. Finiscono poi davanti alla porta della stanza-frigo. E qui c’è quello che potremmo chiamare un montaggio illogico, non causale, un montaggio dove Kubrick inserisce vere e proprie incongruenze. Dick apre la porta con la mano sinistra, stacco di montaggio, Dick entra come se avesse aperto con la destra. Wendy e Danny, che si trovavano sulla sinistra della porta, entrano da destra, la porta stessa che era chiusa a sinistra, ora è aperta a destra.

Quando escono dalla stanza, dalla stessa identica porta, il corridoio è visibilmente mutato. O meglio, è un altro corridoio. Wendy e Danny sono ormai entrati, senza mai essere entrati, nel labirinto dello spazio-tempo dell’Overlook Hotel. È allora l’Overlook Hotel un labirinto? Certo. Cosa manca per essere un labirinto a tutti gli effetti? La dimensione fantasmatica, quell’Altro che rende questa figura, per dirla con lo storico delle religioni Rudolf Otto, Mysterium Tremendum. Come è noto, i “fantasmi” non tarderanno ad arrivare: il corridoio, il triciclo, le gemelle.


Ecco le gemelle. Quelle di «vieni a giocare con noi?» detto in coro e tenendosi per mano. Vestitino azzurro e scarpette di vernice. Taglio, sangue per terra, morti, poi loro, poi taglio, poi loro. Le gemelle dicono tuttavia anche un’altra cosa, meno memorabile ma più efficace per seguire il filo del labirinto: siamo immagini in un libro. E cosa sono immagini in un libro? Sono delle fotografie. Ora, è noto il finale di Shining: la macchina, in prima, si avvicina sempre più alla parete dell’Overlook dove sono appese foto d’epoca. Si avvicina di più, di più, di più, fino ad entrare nella foto di una festa in bianco e nero datata 4 luglio 1921. Al centro, sorridente, elegantissimo e a braccia aperte: Jack Torrance. 
La data potrebbe essere metonimia dell’America, ma quel che è certo è che quello che è accaduto, un loop spazio-temporale: Jack, che va per la prima volta all’Overlook Hotel nel 1980 – e ci muore, è fotografato ad una festa tenuta nella hall dello stesso Hotel nel 1921. Quel che fa allora Kubrick, almeno da un punto di vista scenografico, è chiaro: costruisce un labirinto dentro un labirinto:

1) Il labirinto-giardino della tradizione, dove si entra ma difficilmente si esce vivi: Jack muore assiderato
2) Il labirinto “relativistico” dell’Overlook Hotel, dove le porte si ribaltano, i fantasmi sono fotografie, e dove quel che compi nel 1980 incide retroattivamente su quel che (non) hai compiuto nel 1921.

«Die Welt als Labyrinth»

Il mondo come labirinto. Sono parole di Gustav René Hocke. Il mutare del segno è il mutare della concezione che l’uomo ha del mondo. Dalle epoche protostoriche agli egizi fino al Medioevo. C’è un centro sacrale dell’architettura, un sancta sanctorum, un attrattore gravitazionale posto al centro del labirinto: la libertà (per labirinti multicursali) o il mostro (per lo più in quelli unicursali). Il dispositivo rimane lo stesso durante lo scorrere del tempo. A cambiare sono gli attori del dispositivo. A guidare l’uomo del politeismo è Arianna, a guidare il pellegrino è la fede. Ad essere sconfitto è sempre lo stessa “figura oscena”, la pulsione animale che distoglie dal summum bonum. Poi tutto cambia. A partire dal Barocco, una visione del mondo tutta moderna trasforma anche le raffigurazioni del simbolo. Il problema allora sarà la scelta, l’errore, la ricostruzione della mappa/senso del globo. Eppure c’è di più. Quello che le civiltà ci hanno tramandato è un segno/specchio che mostra il modo con cui nelle varie epoche l’uomo ha rappresentato non soltanto il mondo ma se stesso, il proprio destino e la perseveranza con la quale vi si oppone. Luteranesimo o Calvinismo, assoluta gratuità della grazia o “premio” causalmente determinato da opere giuste.
 Perché il labirinto della modernità non è soltanto quello esterno ma il palazzo mentale di Kubrick e, di più, quello intracoscienzale di Cristopher Nolan.

Cobb e il labirinto dell’es

Cobb (Leonardo di Caprio), che normalmente sarebbe un estrattore, cioè si occupa di rubare segreti dalle menti delle persone, è incaricato da Mr.Saito, un potente uomo d’affari, di innestare una precisa idea nella mente di Robert Fischer Jr., erede del suo più potente rivale: dividere l’impero economico del padre. Cobb, accusato dell’omicidio della moglie, potrà far così ritorno negli Stati Uniti e rivedere i suoi due figli. Per farlo, per innestare l’idea all’interno della mente di Fisher, Cobb ha bisogno di inserirla nel posto più oscuro del suo io, dove la rete della razionalità non può svelare l’inganno, in quella regione che è abitata soltanto da pulsioni primigenie, cioè in pieno Es. Per farlo l’idea deve subire un processo di riduzione:

1) Io non seguirò le orme di mio padre,
2) Io voglio creare qualcosa per conto mio
3) Mio padre non vuole che io sia lui.

La squadra è formata da falsari, informatici, e soprattutto da un architetto: Arianna (Elen Page). Per reclutarla Cobb le propone un test: disegnare in due minuti un labirinto che ne richieda uno per risolverlo.

Tentativo 1:

Tentativo 2:

Arianna dovrà costruire dei labirinti per ogni livello di inconscio. Nel luogo più segreto del labirinto, nel punto più inaccessibile, nello spazio del segreto, lì avverrà l’innesto. Come a dire, seppure l’architettura contemporanea si è decisa per la trasparenza contro l’opacità, per lo spazio, per una demistificatrice limpidezza, la nostra vera casa, l’io, non può che essere labirintica. 
Nel passaggio, tutto moderno, dall’anima alla mente, l’uomo che sceglie di entrare nel labirinto è l’uomo che sceglie per la sua finitezza, per quella solitudine necessaria a trovare la rotta che conduce alla camera del mistero. Perché abbiamo bisogno soltanto di questo, uno spazio e un filo.


Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passagi sul vuoto (Galaad), un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia. È in pubblicazione Pro und Contra. Anders e Kafka (Asterios).

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