illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Federica Serafinelli
La civiltà omerica venne definita dal grecista Eric Dodds cultura della vergogna, in ragione del riconoscimento dell’eroe. Oggi viviamo nell’epoca che mira a renderne virale invece l’umiliazione, vip e mortale indistintamente. Da Rihanna a Kim Kardashan. L’eccezione? La rivincita di Sia.
Questione di dettagli. Riviste di gossip e tabloid estrapolano linfa vitale per i loro fatturati, dalla necessità di categorizzare il corpo umano. Lo problematizzano nell’iperbole dello scandalo. Così, il grasso, le smagliature, la silhouette spettrale ma non troppo né troppo poco, la scelta di non avere figli diventano motivo di vergogna e proprio questo sentimento universale di repulsione viene impiegato per piegare le masse sulla soglia della normalizzazione. Nel momento in cui la società smaschera alcune debolezze che riconducono l’essere umano su un piano quasi primitivo, la bestialità germinale, che tutti accomuna per origine e volontà di sublimarla in qualcosa di meno disgustoso rispetto a quell’eccesso di natura, non lascia scampo al cospetto del decreto di emarginazione dal consesso civile.
La smorfia del disgusto è prodotto e preda del meccanismo pubblicitario. Si sfrutta l’umano sentimento di vergogna per alimentare una macchina mediatica ipnotica. Quest’ultima stabilisce l’ideale regolativo dell’essere umano in società grazie alla creazione di un potente gancio: la consuetudine. Se il format di una rivista è quello di rendersi il meno noiosa possibile accostando al dovere umanitario dell’intervista alle combattenti curde la pubblicità della crema antirughe e la speranza isterica di intravedere una qualche rotondità che sveli una dolce attesa non ancora annunciata da parte della vip, influencer o fashion blogger di turno, appare piuttosto chiaro il meccanismo di mercificazione della vergogna che ci rende abitudinari nell’ambizione ad un certo tipo di ideale regolativo.
La consuetudine del grido allo scandalo per le imperfezioni, le stesse che consentono ad ogni individuo di sfuggire all’indeterminatezza per rimarcare la propria distinzione rispetto al grande calderone del livellamento, è la tessitrice di una trama ripetitiva, soporifera, che sfrutta il sonnambulismo dei popoli delle civiltà progredite e globalizzate per lucrare sulla cellulite di Kim Kardashian sbattuta in prima pagina o per provocare la smorfia del disgusto di fronte alla redistribuzione adiposa sul corpo, un tempo impeccabilmente tonico, di Rihanna. Qualche mese fa fu proprio Sia, cantautrice australiana di fama mondiale, a dare uno smacco al body shaming, postando sul suo profilo Instagram una foto che la ritraeva nuda, prevenendo lo scandalo che alcuni tabloid avrebbero concorso a suscitare con la pubblicazione degli scatti di una naked celeb a fregiare le loro prime pagine. Molto coraggio e una palestra di autoironia occorrono per prendersi una rivincita su questa tendenza dilagante che mira ad umiliare le persone, vip e comuni mortali indistintamente, contro le quali la rete si rivela la piattaforma più congeniale per scagliare lo sfogo dell’ hate speech.
Affetto da una verve triviale di ampio respiro sadico, tale incitamento all’odio per paradosso, molto sembra avere da spartire con il carattere umano, e pertanto anche animale, del corpo contro il quale viene indirizzato il disprezzo per i suoi dettagli estetici naturali. La conseguenza di questa esposizione mediatica è la perversione che la tendenza all’emarginazione si trascina. Se la civiltà omerica venne definita con una fortunata espressione del grecista Eric Dodds “cultura della vergogna”, in ossequio a valori guerrieri che plasmavano l’eroe nella sua possibilità di essere riconosciuto da un contesto in cui onore e rispetto rivestivano un’importanza capitale, l’epoca nella quale viviamo mira a rendere virale, di dominio pubblico, l’umiliazione delle persone. L’arte per l’arte della nostra società della vergogna. Body shame, sex tape, condivisione in rete di episodi di pull a pig sono i termini ricamati in terra anglofona per un corollario di sfumature legate al vigliacco modo che hanno gli esseri umani di diffamare altri esseri umani. Quasi a dire che niente è più umano che rinnegare l’umanità.
Nel momento in cui arrivano ondate di condanne da una stampa più politically correct, la spirale della notizia perpetuata alimenta anche quella fazione mediatica che, mentre scrive la parola “censura”, si contenta di accrescere il proprio profitto. Quando l’ingranaggio del consenso inizia a cigolare, specie nel caso di un personaggio pubblico, la perdita di follower su Instagram è uno dei primi sintomi legati al mancato allineamento con la quadratura ideale prospettata da quella stessa società che fa della vergogna e del disgusto un’arma insidiosa. Quest’ultima viene dunque impiegata per ammaestrare le folle, per educarle e renderle mansuete, narcotizzandole a tal punto da non lasciare spazio alla domanda che ne è della sofferenza o dell’imbarazzo che assale l’individuo per aver trasceso quelle caratteristiche asettiche, impersonali, reputate desiderabili. Lo stigma della vergogna sferza il dettaglio da censurare e lo squalifica per il suo inconsapevole tentativo maldestro di divergere dall’astrazione che generalizza, proponendo l’approssimazione ad un complesso di abitudini, stili di vita, caratteristiche fisiche, modi di pensare.
Il teatro di posa del circuito d’informazione immortala e propaganda la vulnerabilità di qualsiasi politico in balìa di uno scandalo sessuale ancora in attesa dell’esito del processo, di un’attrice alle prese con un corpo non più idolatrabile, di protagonisti e protagoniste di fotografie e video hard finite in rete per errore, per invidia o per vendetta. La messa a nudo dell’intimità morale o fisica delle persone è una potente arma della nostra società. C’è quasi un gusto morboso in questa ricerca del particolare che desti lo scandalo universale alimentando la bulimia mediatica che fa vibrare di scalpore e perentori aut aut il perbenismo dei popoli occidentali. Liberali fintanto che ci si attiene alla soglia di standard minimi, accettabili, per non doversi nascondere, per non doversi sottrarre, per non doversi vergognare. Nel meccanismo di pubblicità, di scambio di sguardi, di confronto relazionale siamo costantemente sotto giudizio: le conferme sono talmente narcisiste da venirci a cercare anche quando tentiamo di disintossicarci. Il motivo risiede nell’ottundimento al quale la società della vergogna dà forma attraverso il gioco a rialzo della travolgente macchina mediatica, che non impiega troppo a dimostrarci come sbarazzarsi di uno scomodo personaggio pubblico o dell’istituzione ad esso connesso: il caso Edward Snowden e le rivelazioni sui programmi di sorveglianza di massa da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna può essere un esempio.
I parametri ai quali gli esseri umani in società si attengono, più o meno consapevoli, sono mutevoli e riproposti di volta in volta, a seconda di un momento storico anche assai breve, dando la parvenza della diversità, per eludere la ripetizione di un procedimento che si conferma sempre identico a se stesso. Lo strumento della vergogna placa gli spiriti dissidenti restituendo schiere di individui che vigilano su se stessi e sugli altri, oltraggiando e infamando nella pubblica piazza il divergente. Oltretutto, la vergogna innescata in un individuo è un residuo di immobilità incorreggibile, non c’è nulla di costruttivo se non l’accettazione della non conformità agli slogan di sistema. Se dunque si profila una correlazione tra colpa e vergogna, emozioni spesso poste in contiguità, emergerà un dinamismo della prima, che permette un tentativo di riparazione, in opposizione al ristagno della seconda. La vergogna, connessa al disgusto, vedrebbe l’unica possibilità di essere dinamizzata nella sua dimensione estensiva ed eccedente, cioè solo se venisse guardata da una prospettiva di messa in comunicazione tra gli esseri umani. Anche nell’amore, del resto, si può essere cagionevoli, asimmetrici . E c’è qualcosa di cui vergognarsi anche nell’amore. La vulnerabilità umana svela come l’anaffettività che pubblicizza l’oltraggio sia solo un tassello delle nostre società emozionali e può ergersi a veicolo di un’empatia diversa da quella che si asserve alla logica dello scambio mediatico, al circuito dell’opinionismo trascinato tra salotti e talk show. Essa è la traduzione in una forma di comunicazione e di ascolto dentro un sistema dei bisogni tale da diventare l’unica assunzione valutativa di una società più indulgente verso un’umanità anche vergognosa.
Federica Serafinelli studia Filosofia alla Sapienza. È appassionata di arte, piante esotiche, lunghe passeggiate in luoghi da esplorare e nei quali perdersi.