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Fiammiferi o stelle. Se avete visto La La Land e Paterson.

Illustrazione di MATTEO SARLO

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Luciano De Fiore

 

Guardi La La Land e pensi a Paterson. Due racconti americani. Il primo è ambientato nella rutilante LA della West Coast e l’altro sulla costa opposta, nella provinciale cittadina del New Jersey dal nome uguale – Paterson – al cognome del protagonista. Entrambi i film raccontano storie di coppie giovani, fedeli a modo loro ai propri più intimi desideri. Il premiatissimo (ma divisivo, adesso si dice così) quasi-musical di Chazelle illustra un’America senza muri né scontri etnici, e men che meno recessione o scontento: il vecchio sogno americano rilucidato e confezionato ad arte. Jarmush sceglie di restare due ottave sotto, registrando una settimana di una provincia sonnolenta e in apparenza appagata. Due Americhe così lontane eppure vicine.
Nel film di Chazelle, Mia (Emma Stone) e Sebastian (Ryan Gosling) volano come frecce scoccate verso il bersaglio: inverare i propri sogni personali. Mia vuol divenire attrice e autrice dei testi che recita. Sebastian è un pianista di talento che adora il jazz senza compromessi (per quanto poi entri in una rockband per tirare su soldi) e desidererebbe un locale tutto suo dove farlo godere in purezza. All’inizio del film entrambi sono già, in potenza, quello che vogliono divenire, secondo il più classico dispositivo metafisico dell’Occidente: dalla potenza all’atto.
Diversamente da Paterson (Adam Driver) e Laura, la giovane moglie (Golshifteh Farahani): lui, un ordinato e fin troppo metodico e flemmatico autista di autobus (Driver!) e lei una apparentemente soddisfatta, geometrica donna di casa. Per un attimo, all’inizio, lo spettatore spera che il primo si riveli nel prosieguo un serial killer, come tutto farebbe credere. Invece è un poeta nascosto, mentre la moglie esprime la propria creatività cucinando cupcakes e componendo orrende canzoni country. Entrambi sono già quel che vogliono, sembrano vivere con una sorta di solida pienezza quel piacere che – secondo Aristotele nel libro X dell’Etica nicomachea – è sempre tutto in atto, e non ammette movimento. E come esemplificano alcuni versi di Paterson:

I knock off work
Have a beer at the bar
I look down at the glass and feel glad.

Entrambe le coppie traggono alimento dal passato. Il primo appuntamento tra Sebastian e Mia è al cinema, ed anche Paterson e Laura si godono una pizza dopo un horror d’annata in bianco e nero, non a caso – primo indizio – l’inverso della loro vita senza sbalzi. Sebastian ha una passione divorante, ai limiti del feticismo, per i grandi del jazz; similmente, Paterson coltiva i propri lari poetici, e nel suo pantheon domestico William Carlos Williams e Allen Ginsberg occupano posti di rilievo. Entrambi nati, per davvero, a Paterson NJ, così come Ron Padgett, autore delle notevoli poesie attribuite nel film all’autista, al punto da scriverne tre per l’occasione.
Nel film di Jarmush come in quello di Chazelle la realtà sembra non ostacolare il sogno: il giovane poeta e la sua insopportabile mogliettina sono già sposati e sembrano attendere senza ansia che qualcuno si decida a offrir loro un meritato riconoscimento, prendendo a vederli così come entrambi già si vedono e vedono l’altro, fiammifero e sigaretta l’uno per l’altra:

All this will give you
That is what you gave me
I become the cigarette and you the match,
Or I the match and you the cigarette
Blazing with kisses that smoulder towards
heaven.

Mentre invece, come già per il super promettente batterista protagonista del precedente film di Damien Chazelle, Whiplash, Mia e Sebastian devono ancora scavalcare qualche ostacolo lungo la via della gloria, per esser fedeli ai propri desideri.
I due ragazzi di La La Land provano, almeno inizialmente, a farlo tenendosi per mano. Ma non possono: la sfida, in America, è individuale, ognuno è chiamato a dare il meglio prescindendo dal gruppo, dall’amato, dalla famiglia. Per farcela, dopo la rincorsa presa insieme, ci si deve lasciare. Non si capirebbe altrimenti perché mai Mia, partita ancora innamorata per girare un film a Parigi, torni solo dopo cinque anni, ormai star acclamata e madre e moglie di un altro. Non ogni separazione mette fine al rapporto, specie oggi in era low-cost. Invece, i due eroi di Chazelle devono alimentare il proprio narcisismo nella pienezza della propria rispettiva, privata solitudine. Come il batterista in Whiplash, solista per eccellenza, Mia vuol recitare monologhi, finirà con l’essere la star di un film senza copione, confezionato su di lei; e così Seb, il cui massimo desiderio è suonare da solo, fuori da ogni band o gruppo.

Tornata a LA, Mia entra attratta dal suono di un piano che le sembra di riconoscere nel locale di Sebastian, quel Seb’s che ha contribuito come nessuno a fondare. E ci vien mostrato che le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa: con il più classico effetto sliding doors (usato anche nel finale del fortunato Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, l’anno scorso), Mia sogna una storia egualmente possibile, al fianco del pianista che l’aveva fatta innamorare. Persino l’ultima frase di Mia a Seb (“I’m always gonna love you”) suona più come un riconoscimento a chi le è servito da trampolino di lancio che un atto d’amore.
Comunque, un successo. Sia per Mia, sia per Sebastian. In ogni caso, LA sembra conoscere solo affermazioni e idealizzazioni. Qualsiasi uomo avesse avuto al suo fianco, Mia ce l’avrebbe fatta, le stelle – richiamate dal tema musicale ricorrente e dall’osservatorio Griffith che fa da sfondo a due delle scene-madri del film – le avrebbero comunque sorriso: «you damn well ought to be, because I’m worth it», ha scritto legittimamente spazientito il critico del “Guardian”. Idem per Seb: Mia o non Mia, il suo ego ipertrofico avrebbe trovato comunque uno spazio adeguato dove esibirsi.
In Paterson, invece, ad un simpatico bulldog indisciplinato è rimesso il compito di dar conto delle frizioni che incontra un principio di piacere con la riga a posto e depotenziato, anche nella supercompiaciuta America consegnatasi a Trump. Ecco il secondo, decisivo indizio che la vita non è riempita solo dal sé e a volte va contromano. Lasciato solo in casa, il cane sbava e sminuzza il quadernetto delle poesie autografe e senza copie del padrone. Le liriche sono fatte in mille pezzi. Eppure, il dispositivo metafisico non s’incrina: l’autista-poeta sarà infatti in grado di crearne e di scriverne altre. Basta che un altro Narciso allo specchio – un poeta giapponese in visita nel paese di William Carlos Williams – gli offra un quaderno vergine per ridar fiato all’ossessione.

Però, almeno, Jarmush nel film ci ha messo il cane, Marvin, facendone il vero protagonista. Il bulldog inglese dispettoso storce a musate il paletto della posta sul vialetto d’entrata; occupa la poltrona migliore di casa e infine fa a pezzi le parole leggere del padrone. Come ad abbaiare ai due ragazzi: lasciatevi vivere, rinunciate ai vostri riti ossessivi (la sveglia al mattino, gli abbracci asessuati, la passeggiata serale con me, la visitina al pub dopo avermi legato fuori, i dolcetti geometrici sempre uguali, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana). Fate l’amore, ridete invece di sorridere, smettete di giocare con le parole (in rima o in arpeggi) e lasciate che la vita – questa sconosciuta – strapazzi le vostre insopportabili routine.


Luciano De Fiore è docente di Storia della filosofia contemporanea. Tra le ultime pubblicazioni La città deserta. Leggendo il Sapere assoluto nella Fenomenologia dello spirito di Hegel; Philip Roth. Fantasmi del desiderio; Anche il mare sogna. Filosofia dei Flutti.

Matteo:
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