illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Giulia Sinceri
“Il rosa è per le femminucce, il blu per i maschietti”. “Fiocco rosa perché è nata una bambina, fiocco azzurro perché è nato un maschio”.
Quante volte abbiamo sentito queste frasi leziose? Tante volte da darle per scontate, poco ma sicuro. Eppure il rosa, originariamente, non era affatto un colore femminile. Prima degli anni Cinquanta veniva associato agli uomini, in quanto colore forte e deciso, legato agli eroi e ai combattimenti, mentre il blu veniva considerato più grazioso e dunque più consono alla sfera femminile. In seguito si avviò la severa distinzione che conosciamo ancora oggi: blu per i maschi e rosa per le femmine, e guai a non rispettare la regola perché è subito allarme gender. Perdita dei valori. Fine della famiglia tradizionale. Morte e distruzione.
Questa premessa nient’affatto sarcastica per dirvi che forse, se negli anni Cinquanta non si fosse imposta questa nuova moda, lo storico tailleur indossato da Jackie Kennedy il giorno dell’assassinio del marito non sarebbe stato rosa. E forse non sarebbe passato alla storia. Che esagerata, direte voi, è solo un colore: eppure ha contribuito alla pervasività del mito dei Kennedy.
Kennedy, il Brand
Pensate al rosa del tailleur in netto contrasto con le macchie di sangue, disposte come se si trattasse di una performance artistica in cui la vernice viene gettata su dei corpi nudi. Del resto, come mostra efficacemente il regista Pablo Larraìn nel suo Jackie, la first lady più famosa della storia non ha fatto altro che avviare una performance durante il regno del marito e dopo la sua morte: ogni sua scelta e ogni suo gesto volevano dare l’impressione che la presidenza Kennedy avesse creato una dimensione sì fiabesca ma anche accessibile ai comuni mortali. Per questo Jackie e il consorte autorizzarono il primo tour televisivo della Casa Bianca. Faceva tutto parte di una performance in cui si raccontava un prodotto dal packaging accattivante: il brand Kennedy. Del resto tutti noi, attraverso il modo in cui ci presentiamo al mondo, diamo continuamente vita a delle performance, i cui tasselli principali sono i nostri gusti, i nostri comportamenti. I nostri abiti. Ciò che scegliamo di indossare dice molto su di noi e su come vogliamo apparire. E Jackie Kennedy lo sapeva bene.
La gonna e lo storytelling
In quel 22 novembre 1963, il rosa era dunque considerato a tutti gli effetti un colore prettamente femminile. Era inoltre il colore del tailleur preferito di Jackie, realizzato in America da Chez Ninon, che per confezionarlo utilizzò del tessuto proveniente dalla sede parigina di Chanel. Una first lady patriottica ma esotica, raffinata ma rassicurante. Eppure, in quella data, il rosa dell’abito di Jackie ha ripreso i suoi vecchi significati riguardanti il combattimento, ma soprattutto gli eroi: le macchie di sangue sul vestito testimoniano la violenza che i Kennedy e l’America stessa hanno vissuto quel giorno. Una testimonianza che ha avuto un ruolo determinante all’interno dello storytelling del dolore diretto da Jacqueline Kennedy sin dal volo che da Dallas la stava riportando a Washington, durante il quale non voleva togliere l’abito sporco di sangue perché “tutti devono vedere cosa hanno fatto a mio marito”. La storia di quel giorno era dunque intessuta sulla gonna dell’ormai ex-first lady.
E se tutti dovevano vedere cos’era successo a suo marito, allora tutti dovevano ricordarlo per sempre: un mito non si costruisce da solo, parte da un personaggio come Jackie Kennedy ma in seguito diventa tale perché ognuno contribuisce ad ampliarlo tramite le proprie suggestioni, idee, impressioni. Ma affinché ciò avvenga, il processo di mitizzazione deve palesarsi alle folle e deve risultare epico, come epico risultò il funerale di JFK, preceduto dalla solenne processione a piedi fortemente voluta da Jackie. Il corteo funebre, passando per le strade di Washington, sembrava appropriarsi della città, nutrendosi delle sensazioni provate dagli spettatori presenti alla performance luttuosa. Questa narrazione del dolore passava da un tailleur a una processione per arrivare infine a un articolo pubblicato su Life pochi giorni dopo il funerale, il quale venne dettato alla rivista dal telefono della casa di Jackie, in modo che potesse controllare che le sue parole non venissero modificate nella stesura. Ecco come si diventa un’icona. Dando un pezzo di te alla folla ma controllando esattamente come e quando darlo.
L’icona
Inoltre, al pari di Jackie, anche altre grandi icone dello scorso secolo presentano dei segni di forte riconoscimento fisico: basti pensare ai guanti di Michael Jackson, al caschetto di Uma Thurman in Pulp Fiction, al lampo colorato sul viso di David Bowie. Così che al prossimo Halloween ci sia più facile replicare le fattezze del nostro idolo. Trattasi dunque di una mira feticistica strettamente connessa con il meccanismo della duplicazione, come viene ben esplicato da una delle scene finali di Jackie di Larraìn, dove l’ex-first lady osserva un esercito di manichini creati a sua immagine e somiglianza: iconicità seriale. Del resto il tema del doppio è ricorrente lungo tutto il film, si ritrova nella distinzione tra la verità e quello che non potremo mai conoscere, tra l’intimità e il palcoscenico mediatico, tra l’immagine e la sostanza. Larraìn ci insegna che ci sono più versioni della medesima persona, e che forse la sua essenza è data dalla somma di queste sfaccettature. Ma per quanto riguarda la figura di Jackie, non possiamo essere sicuri che le versioni che pensiamo di conoscere e quelle declinate secondo l’idea del regista cileno siano complete. Probabilmente ve ne saranno altre che non arriveremo mai a immaginare, perché la verità è che le icone ci concedono un possesso illusorio e fallace.
La reliquia
Del resto Caroline Kennedy, la figlia di Jackie, per ridurre al minimo quest’attaccamento feticistico da parte delle persone, ha voluto che il tailleur rosa non venisse esposto al pubblico bensì fosse conservato in un caveau a clima controllato. Eppure, in questo modo, il tailleur è passato dall’essere un’icona al diventare una reliquia. Un oggetto sempre degno di venerazione dunque, reso ancora più affascinante dal suo essere invisibilmente visibile, proprio come lo era Jackie: una donna sotto gli occhi dei riflettori ma al tempo stesso perfettamente capace di sfuggire alla loro luce accecante.
Giulia Sinceri è una studentessa di Media, Comunicazione digitale e Giornalismo alla Sapienza. Alle elementari diede vita al racconto “Il frullatore magico” e da lì capì che scrivere era la sua strada. Solo che adesso scrive principalmente di cinema, non più di elettrodomestici.