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INSIEME ALLA VITA. A PARTIRE DA AFTER LIFE
14/05/2020|L'ANALISI

INSIEME ALLA VITA. A PARTIRE DA AFTER LIFE

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Luciano De Fiore

   Tra le parodie più corrive del giovane filosofo in erba, c’è quella del tipo che in un contesto qualsiasi – un bar, una festa, una tavolata di amici, un ufficio – di colpo prende a chiedere che senso abbia tutto questo. Insomma: perché l’essere, e non il nulla. Domanda che di solito ne tira un’altra: si sa, le stelle sono indispensabili, e quindi chi ha voluto l’universo, chi ha acceso quella specie di immenso fuoco d’artificio che  è il Big Bang? E di lì una pioggia di interrogativi, su che senso abbia la vita, ammesso non abbia ragione Vasco; e pur ammettendo lo abbia la Vita con la maiuscola, beh non si capisce bene però quale senso abbia la nostra, che nel pulsare del cosmo lascia una traccia paragonabile a quella di una formica nel Sahara. Ma allora, se è evidente che nulla ha senso, che la vita è il teatro dell’assurdo, allora perché non la si fa finita? Oppure, al contrario (magari si è letto qualcosa di Dostoevskij), se Dio non c’è, allora perché non approfittarne, dal momento che non è tracciabile un confine tra Legge e arbitrio soggettivo. Perché non dare libero sfogo alle pulsioni? La Legge esiste per essere infranta, no? Le barriere per essere scavalcate, i padri per venir traditi, gli argini per venir tracimati e così via.
   Se s’imbocca questo sentiero, è possibile snocciolare una serie di domande, molte aporetiche. Rendendo di solito un cattivo servigio alla filosofia, anche se s’insiste in quel vortice animati da una sorta di passione per il Reale. Lasciamo stare la versione buonista, di colui che, tradendo il proprio pessimismo, cede infine ad un rigurgito di speranza al vedere una rondine in cielo, il sorriso di un bambino, il sudore sulla fronte di un lavoratore…
   Eppure, sono anche le nostre domande. Dipende dal modo di formularle e dal contesto. Se non banalizzate, dicono il nerbo della metafisica occidentale, soprattutto se si conoscono i ragionamenti che le hanno affinate,  appuntite, smitizzate, accordandole ai tempi. Chi ne è davvero preso, ne consulta la genealogia e le risposte tentate nel tempo, cercandole non solo nelle opere dei filosofi, ma anche nell’arte. Si pensa subito a I fratelli Karamazov di Dostoevskij, naturalmente, o al Mito di Sisifo di Camus. La letteratura è un serbatoio prezioso, insieme a qualche buon film.
  
   Un modo minore, e contemporaneo, consiste nello scegliere una serie televisiva. Minore, ma che a volte funziona. La serie consente, per sua natura, di insistere sul problema, di affrontarlo da angolature diverse. Soddisfacendo così un’esigenza della domanda stessa. Perché a volte una domanda è talmente impositiva da farsi sintomo di un trauma. Risponderle, girandole intorno per coglierne le sfaccettature, potrebbe essere un modo per affrontare quel trauma. Magari per dimenticarla, per accantonarla finalmente, almeno per un po’. Una domanda come “ma vale davvero la pena vivere?”, se non è frutto di una sbronza o se non la si fa per far colpo su di una ragazza,  può farsi persecutoria al punto da infettare un’esistenza.  Se ci accorgessimo che è frutto di un disagio, che non è semplicemente mal posta, o che è una falsa questione, conviene insistere sulla domanda stessa. Per via del paradosso – scriveva  Žižek – per cui ci si deve strutturare in modo da ricordare correttamente una domanda in ogni suo aspetto, se si vuole dimenticarla meglio. Dovremmo riproporla più e più volte, farla nostra davvero, di modo che poi cessi di perseguitarci.
   Un meccanismo traumatico che si fa evidente in momenti particolari della vita, come quando si subisce la perdita di una persona vicina, che nel bene o nel male ha molto contato per noi. Inutile dire il dolore, la reazione di vuoto o di angoscia che può generarsi, la tristezza per quanto si è irrimediabilmente perso o la rabbia per quanto avremmo desiderato ancora esprimere a quella persona, o per il tempo che avremmo voluto ancora vivere con lei. Quell’esperienza, di solito per un certo lasso di tempo, apporta alla vita psichica un incremento di stimoli così forte che la sua liquidazione o elaborazione nei modi consueti non riesce, il che genera disturbi permanenti nell’economia energetica della psiche, facendo sì che per quel lasso di tempo ci si fissi affettivamente a quel qualcosa o qualcuno che non c’è più: «Un tipico modello di fissazione affettiva a qualcosa di passato è il lutto, che implica in verità il più completo distacco dal presente e dal futuro»[1]. Tuttavia, l’esperienza di ognuno conferma che il lutto è una condizione temporanea e per così dire fisiologica, generatasi per reazione alla perdita. Ma quest’ultima è in grado di generare in alcuni quella disposizione patologica che Freud chiama melanconia, caratterizzata da «un profondissimo e doloroso scoramento, dal venir meno dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell’attesa delirante di una punizione»[2].
   Lutto e melanconia si dispongono dunque lungo una linea di continuità: entrambi trovano la loro ragion d’essere nella perdita, entrambi sono caratterizzati da un estraniamento dalla realtà e da una testarda adesione all’oggetto perduto, la cui esistenza viene psichicamente prolungata, sovrinvestendo tutti i ricordi e le aspettative che vincolavano la nostra libido a quell’oggetto. Il profondo dispiacere ad un certo punto cede di fronte all’esame di realtà: e qui il lavoro del lutto per solito s’interrompe, lasciando la persona di nuovo libera e disinibita, capace di reinvestire la propria libido in altri oggetti. Questo processo non è il medesimo, ovviamente, se insorge quella che Freud chiama melanconia, e che oggi tendiamo a collocare all’interno dello spettro dei disturbi depressivi. Mentre nel lutto il mondo risulta impoverito e svuotato, nella melanconia è l’Io stesso ad apparire del tutto svuotato e avvilito. Chi vive un lutto, vive la perdita di un oggetto libidico esterno; il melanconico ne deriva invece, in più, la perdita del proprio Io.

   La serie che prendo a esempio per richiamare questo nodo di problemi è recente. Non tra le più note, anche se la prima stagione ha ricevuto buona critica. Si chiama After Life, è prodotta girata e interpretata da un noto attore comico britannico, Ricky Gervais, e su Netflix si possono vedere i sei episodi della nuova, seconda stagione, meno convincente e divertente della prima.
   Dopo quale vita? Dopo quella che per Tom Johnson, il protagonista, è stata la vita tout court, trascorsa per venticinque anni a fianco della moglie Lisa, morta per gli esiti di un tumore al seno l’anno prima, rispetto all’inizio della serie. Ma la cui vitalità e generosità affettiva impariamo a conoscere grazie ad insistiti flash back favoriti dalle registrazioni che la donna ha lasciato dietro di sé, e a filmini girati nel corso della loro vita di coppia e che Tom guarda compulsivamente al laptop. A volte compra del vino, e perfino della droga, per stordirsi dopo aver guardato per la centesima volta i video che la moglie gli ha lasciato, registrati temendo già un crollo del marito.
   La serie racconta dunque la non-vita di un giornalista in un paesetto della provincia inglese, Tambury, affacciato sul mare, ma fittizio: la scenografia ideale è stata trovata ad Hampstead ed Hemel Hempstead,  tra la Londra più classica e i sobborghi, e in una località marina del Sussex. Un’ambientazione idilliaca: la serie è stata girata evidentemente nella tarda primavera inglese, quando i lillà sono in fiore e ancora resistono i rododendri e le azalee, così che i celesti cieli slavati e il rosso dei mattoni delle casette a schiera con giardino stridano volutamente con il sentimento di Tom, letteralmente schiantato dalla vedovanza. Agli inizi, i suoi pensieri di morte sono ossessivi, e in un paio di volte sfociano in maldestri tentativi di suicidio. Un sentimento malinconico profondo s’impadronisce del lutto, stravolgendolo in una radicale visione pessimistica dell’esistenza, dalla quale si salva solo il cane lupo Brandy: un’animale iniezione di vita. Tom affronta il dolore con rabbia, con un di più di cinismo e disincanto che svela la mancata elaborazione del lutto, e che lo induce ad aggredire con sarcasmo chiunque intorno a lui viva la vita come viene. Una volta cagliato il dolore e ridotto a misantropia, decide insomma di usarlo come un’arma, facendo della propria stanchezza di vivere un “superpotere”: il suo programma prevede che farà tutto ciò che vuole e dirà a tutti esattamente quello che pensa, e che quando sarà stanco di tutto ciò, si ucciderà. Ogni contatto umano, ogni conversazione diviene lo spunto per una riflessione amara sulla perdita, sull’assenza di senso nella vita, sulla ingiustizia che permea ogni aspetto del vivere, da quando si è bambini a quando si muore, offrendogli l’opportunità di brandire il suo ateismo con rabbia. Ogni minuto della sua vita diviene un atto di riconoscimento della complessità e del disordine del dolore, e insieme una dichiarazione di assoluto disinteresse per quella presunta santità che secondo alcuni comporterebbe la sofferenza. Assenza, più acuta presenza, scriveva Attilio Bertolucci.
   Insomma, Gervais interpreta alla grande il vedovo melanconico, aspirante suicida, spinto ad attuare narcisisticamente i propri impulsi più nichilisti. Paralizzato da una depressione reattiva e senza alcuna ragione residua per cui vivere, passa le giornate a rivelare verità esistenziali a tutti quelli che incontra, senza alcun filtro e dimostrando la più assoluta insensibilità. A nessuno – non ai postini, ai negozianti e neppure ai bambini cattivi – viene risparmiata la sua determinazione nel proclamare come stanno le cose. A volte risultando anche divertente: a un’anziana vittima di una rapina, di 93 anni, Tony non si esime dal far notare che non ne uscirà “sfregiata per la vita”, come si lamenta la donna: «Anche se vivesse fino a 100 anni, sarà stata segnata solo per il sette percento della sua vita».

   Una straziante combinazione di malattia terminale, morte, lutto e pensiero suicidario retta da un postulato assoluto: da una parte c’è la vita, dall’altra – di là dal muro – la morte. Ma proprio la pretesa linearità di questa opposizione vorrei venisse revocata in dubbio con l’aiuto di questi appunti.
   Al dunque, se arriverete alla fine della seconda stagione (e speriamo non ce ne sia una terza), potrete anche interpretare la serie come una storia di redenzione, desiderosa di dimostrare come tutti i minuscoli atomi di bene nel mondo possano accumularsi fino a rendere la vita degna di essere vissuta. C’è una fase, sul finire della serie, in cui Tony infatti sembrerebbe averne abbastanza di ferire gli altri e di spargere il seme della sua disperazione; dimostrando piuttosto di esser disposto a farsi testimone delle ferite che quelli nella sua orbita cercano invece pateticamente di nascondere, a cominciare dai suoi compagni di lavoro. Ma non è questo il messaggio che viene da cogliere.
   Se invece voleste illustrare l’irrimediabilità di una situazione di dolore, irriscattabile per quanto impegno ci si possa dedicare, allora il personaggio di Tom e le sue storie fanno al caso vostro. Tanto è conclamata la sua incapacità di strisciare fuori da sotto il treno del suo dolore. Gli episodi della prima annata sono un inno alla stagnazione, all’impotenza per non ri-decidersi alla vita, abbandonando un lutto mai elaborato fino in fondo – il che viene reso filmicamente dai numerosi flashback, calco dei ricordi del protagonista. Anzi. Molti momenti – alcuni dei quali amaramente esilaranti – rappresentano in maniera attenta, ma senza alcuna concessione al cliché, la scoperta da parte di Tom di non desiderare affatto la felicità. Inverando, inconsapevolmente, la decisiva scoperta freudiana: tutto vogliamo, fuorché godere. Se il desiderio ha un nemico, questi ha il nome di felicità. Piuttosto, proviamo piacere nel nostro sintomo. Nel pieno della propria disperazione, Tom confessa al suo psicoanalista – peraltro, evidentemente più in crisi di lui – di provare gli unici momenti passabili nell’assaporare il proprio dolore.
   E allora ecco l’insistenza nella routine. Ogni episodio si conforma alla routine di Tom. Routine che però non riesce a portare ordine nel suo caos emotivo ed esistenziale.  La sua giornata ha delle invarianti, come quella di tutti. Una volta sveglio, senza alcuna fretta, dà da mangiare e porta a spasso il cane. Poi fa colazione, trangugiando quel che trova negli scaffali deserti della cucina. Esce in strada per andare al lavoro, e un giorno s’imbatte in Daphne aka Roxy, una lavoratrice del sesso che Tom si ostina a definire prostituta e che si rivelerà un’amica inaspettata e sensibile, un altro giorno nel postino ficcanaso. Poi arriva al lavoro – è giornalista  per il quotidiano gratuito locale, dove trova quelli che sarebbero i suoi compagni: il capo nonché cognato Matt, alle prese con una crisi coniugale; Sandy, una giovane aspirante giornalista di origini indiane, e soprattutto Lenny, il paziente fotografo pacioccone che condivide il suo non-lavoro di reporter di non-notizie. Con il quale magari esce, per annodare una delle innumerevoli non-storie che sembrano zampillare dal suo sonnolento villaggio. I cui abitanti sembra non abbiano altro desiderio che di finire sulle pagine del quotidiano, anche a costo di esporsi per le ragioni più assurde e inverosimili. Una coppia ha scoperto un’invisibile somiglianza del loro bambino di due anni con Adolf Hitler, e se ne compiace. Un tipo ha subito una perdita d’acqua e sostiene che, miracolosamente, nella macchia in corridoio si sia disegnato il volto di un attore famoso. Un altro tizio, lasciato dalla moglie, per compensare la perdita, non ha trovato di meglio che accumulare qualsiasi cosa sia entrata nel suo perimetro: dai topi morti ai barattoli dei sughi, dagli scarafaggi ai tubi della carta igienica. Una donna, una madre di famiglia, ha deciso di continuare a tirarsi il latte dopo lo svezzamento del figlio e di usarlo per farne dei budini che offre a Tom e al fotografo. Tom, la cui moglie è morta per un carcinoma mammario, è squassato dai conati al solo pensiero.
   Lasciare una traccia, purchessia. Temendo, ognun per sé, che la vita di everyman non valga nulla; e, sgomenti per l’angoscia di dover infine guardare in faccia questa realtà, la denegano, cercando nella pubblicazione delle proprie storie sul giornale la prova del contrario: dell’importanza di un qualche aspetto, per quanto minuto e insensato, del loro vivere. Tutti, i più inconsapevolmente, non fanno che nutrire amorevolmente la loro personale forma di angoscia. Ripetitivamente. La ripetitività, anzi la coazione a ripetere, è un marchio della serie. La ripetitività di After Life è dunque una sua caratteristica, non un difetto. La storia senza picchi, e senza particolari infamie, di un uomo ordinario che non ha saputo resistere alla morte della moglie. E che come chiunque non abbia elaborato la perdita, siede quotidianamente su una panchina del cimitero che spesso condivide con Anne, vedova anch’ella (interpretata da un’attrice notevole,  Penelope Wilton), lei sì in lutto. Un uomo oltre i cinquanta che fa visita svogliatamente al padre malato di demenza senile in una di quelle residenze abitative assistite – oggi purtroppo nella cronaca per gli orrori della COVID-19 -, già di per sé luoghi di tristezza e di abbandono. Un vecchio che ormai sembra non riconoscere le persone né ricordare le situazioni, su quel confine tra la vita e la morte che il figlio non si decide a varcare. Il padre di Tom trapasserà nel sonno, smettendo semplicemente di respirare. Nessuna barriera, solo continuità.
   Nell’ospizio lavora un’infermiera, Emma, che si dedica pazientemente anche al vecchio padre del giornalista. Tom impara ad ammirarne la pazienza e la dedizione e instaura con lei un legame inquieto e tenue. Sente che la donna è una sorta di bionda Caronte che frequenta quel territorio incerto dove ormai non si vive già quasi più, pur non essendo morti ancora, ennesimo simbolo di quella prossimità tra vita e morte che Tom non vuole assolutamente accettare, e alla quale preferisce una vita mozzata, sempre sull’orlo di un precipizio che s’illude di poter varcare grazie ad una propria decisione, non accettando che tutti permaniamo su quella bocca di vulcano da quando si nasce, e non è questione di sceglierlo. Piuttosto, come dice Freud, possiamo scegliere il modo per arrivare a quell’appuntamento ineludibile.
  Tom è dunque attratto da Emma, ma il senso di colpa gli fa pensare che se chiedesse alla donna di esser la sua compagna tradirebbe la moglie. Non è così: piuttosto, tradirebbe la morte, alla quale si è come votato per tenerla a distanza: le continue minacce di saltare il fosso, altro non sono che delle conferme che si è al di qua del fosso. In cuor suo, ma non lo riconoscerebbe mai, sembra recitare a sé stesso la storiella – che anche Freud racconta – di quel marito affettuoso che confida alla moglie: “Se uno di noi due muore, io mi trasferisco a Parigi”. Come se si desse, appunto, un valico che separi vita e morte, ma soprattutto come se si desse un confine certo tra la morte degli altri, sempre possibile per quanto tragica, e la nostra, di fatto impossibile, dato che non ne possiamo fare esperienza, come già insegnava Epicuro. Confine che ci tiene in ogni caso su questa sponda.
  
   D’altra parte, è così che siamo allenati a pensare la questione, da secoli di pensiero occidentale. Nonostante la psicoanalisi e Freud ci abbiano ammonito da più di cent’anni di modificare il vecchio adagio Si vis pacem, para bellum, in un più consono, e utile, Si vis vitam, para mortem. Se vuoi sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte[3]. Non a caso il massimo filosofo dell’Occidente, Hegel, pone la questione in termini ancora oppositivi, per quanto – come suol dirsi – dialettici. Chiunque, pensato astrattamente, è solo un individuo. Ma concretamente ognuno appartiene al genere, ci svela il processo vitale: «Nel processo del genere tramontano le separate singolarità della vita individuale»[4]. La morte in questo quadro sembra mantenere una propria funzione, anche se in qualche modo sussidiaria della vita.
   Forse, dovremmo impegnarci a scioglierla da questa opposizione. Con l’aiuto di Jacques Derrida che muove proprio da Hegel per iniziare un suo ricco seminario, intitolato La vie la mort. Così, senza et (e), e men che meno est (è). La vita la morte. Che comincia proprio rinunciando al rapporto di giustapposizione o di opposizione, così da mettere in questione proprio la logica di posizione. E non perché Derrida non ritenga che la vita la morte non formino due, né che fossero l’uno l’altro dell’altro, ma perché «quest’alterità o questa differenza non era dell’ordine di ciò che la filosofia chiama opposizione (Entgegensetzung), doppia posizione di due che si giustappongano, come accade per esempio in Hegel»[5]. Proseguendo, sembra però che Derrida non contesti fino in fondo a Hegel la contrapposizione tra vita e morte. Tanto è vero che cita un luogo quasi finale della Scienza della logica: «solo l’idea assoluta è l’essere, vita immortale, la verità che si sa ed è ogni verità». Al che Derrida commenta: «A questo punto, l’ultimo, la vita non ha più opposizione, né alcunché di opposto, l’opposizione ha luogo in lei, perché si riappropri di sé stessa, ma la vita non ha più altro davanti a sé. Lo è della vita è la morte è della vita, l’essere è vita, la morte è impensabile come qualcosa che sia. Ecco ciò a cui conduce la logica oppositiva, nella più grande attenzione che accorda alla morte (è il caso di Hegel): alla soppressione dell’opposizione» [6].
   Quindi, essere e vita vengono a coincidere. Lo pensa anche Nietzsche – nota Derrida – in uno dei frammenti de La volontà di potenza: «”L’essere” – non ne abbiamo altra rappresentazione che come “vivere”». Nietzsche quindi, a rafforzare Hegel e il concetto che essere non sia rappresentabile che dal vivere. La morte diviene un mero tramonto che allunga le sue ombre, ma non potrà mai mettere in chiaroscuro la luminosità della vita.
   Ma, suggerisce Derrida, possiamo però continuare a pensare al di là della rappresentazione – Jenseits, nella accezione cara tanto a Nietzsche, quanto a Freud. Si può andare oltre quest’identificazione di fatto dell’essere con la vita che ricomprende la morte. E allora, la vita la morte neutralizzando tanto l’opposizione (la vita e la morte), quanto l’identificazione (la vita è la morte).
   La proposta di Derrida va verso il Freud impervio del 1920, quello di Al di là del principio di piacere. La fine della vita, il suo obiettivo e insieme il suo termine, sarebbe il ritorno all’inorganico originario. Ma così rischiamo una inversione della prospettiva hegeliana, la vita divenendo una sorta di deviazione dell’inorganico nel ritorno a sé stesso, come un accidente della morte. Le pulsioni conservative che pure ci corredano consentirebbero però, e non è poco, nota Freud, che ognuno possa assicurarsi che quell’itinerario sia frutto di nostre scelte, di modo che ognuno possa «morire la propria morte. L’organismo si conserva, si risparmia, bada a sé non per proteggersi dalla morte, ma contro una morte che non sia davvero la propria. Si protegge […] contro ciò che potrebbe rubargli la sua morte, facendogli capitare una morte da fuori»[7].
   Da qui si dipartono nuovi sentieri, intricati. E preferiamo fermarci.

[1] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Id., OSF, Bollati Boringhieri, Torino 1976, vol. VIII, pp. 437-8.

[2] S. Freud, Lutto e melanconia, in Id., OSF, Bollati Boringhieri, Torino 1976, vol. VIII, p. 103.

[3] S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in: Id., OSF, Bollati Boringhieri, Torino 1976, vol. VIII, p. 148.

[4] G.W.F. Hegel, op. cit., pp. 878-9.

[5] J. Derrida, La vie la mort. Séminaire 1975/76, Èditions du Seuil, Paris 2019, p.19.

[6] Ivi, p. 22.

[7] J. Derrida, op. cit., p. 334.

Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.

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