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Il Sacrificio e il paradosso della Responsabilità

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Nicole Paglia

 

Si chiamano Gaia e Gioia, i due agnellini di poco più di due mesi, che la Presidentessa della Camera, Laura Boldrini, ha portato in salvo nelle stanze di Montecitorio, sottraendole alla strage pasquale degli ovini. A causa della mancanza di giardino e della presenza del gatto Gigi, le due pecorelle non potranno essere accolte direttamente in casa Boldrini ma andranno a stare in una fattoria didattica, tra le coccole e le cure degli addetti ai lavori.  Più fortunato è invece il caso dei cinque agnellini adottati qualche giorno fa da Silvio Berlusconi che hanno avuto la possibilità di essere allattati e ospitati direttamente nel parco della villa di Arcore.
In breve, se qualcuno non se ne fosse ancora reso conto, è arrivata nuovamente la Pasqua e con lei, oltre le colombe piene di zucchero e le uova di cioccolata, anche la solita retorica.
Abbandonando per un attimo il gossip politichese e le campagne vegane della Brambilla, resta aperta la questione:
1) La tradizione è al di là della morale?
2) Se sì, la tradizione deve o non deve essere mantenuta?

Cerchiamo di procedere con ordine e facciamo un passo indietro. Perché il sacrificio dell’agnello pasquale ha radici giudaico-cristiane. Nell’Antico Testamento l’uccisione dell’agnello è il memoriale della liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto. Per volere divino il rito è annuale, così come è descritto nel libro dell’Esodo (12,1- 14,46).
Nel Nuovo Testamento c’è però uno slittamento. Nel vangelo di Giovanni (1,29) si legge che Gesù, nel momento in cui si presenta presso il fiume Giordano per ricevere il battesimo, è chiamato da Battista come «l’agnello di Dio, colui che toglie i peccati dal mondo»: quel che avviene allora è l’identificazione dell’uccisone dell’agnello, e del sangue con cui venivano segnati gli stipiti delle porte, con il sangue dell’immolazione di Cristo sulla croce, entrambi sacrificati il giorno precedente alla pasqua giudaica. Ogni anno, sulle tavole degli italiani, avviene allora la ripetizione di un rituale sacrificale, o per l’esattezza la commemorazione e la riattivazione della morte di Cristo, inchiodato nel legno per volere divino, al fine di garantire agli uomini la salvezza nella resurrezione.

Ma non basta. Sacrificio deriva dal latino sacrificium, ossia dall’unione di sacer più il verbo facere, letteralmente «rendere sacro». Propriamente esso indica dunque il gesto tramite cui un elemento viene tolto dalla sua originaria condizione profana e fatto entrare all’interno di una dimensione sacrale come atto propiziatorio o di devozione in favore di una divinità. C’è dunque una chiara connessione di senso con la sfera religiosa. Altra accezione di significato che il termine può assumere è quello più comune di rinuncia. In effetti ogni sacrificio implica, oltre che una dimensione di dono – del donare qualcosa alla divinità – anche una dimensione di rinuncia, di dono e quindi di abbandono della cosa donata. In altri termini il sacrificio, apparentemente, non è altro che dono di sé o della propria morte in favore di qualcosa, per ricevere qualcosa in cambio. Il sacrifico si inscrive all’interno della logica economica del rendiconto.

La mitologia è piena di questi esempi, primo fra tutti il sacrificio di Ifigenia, giovane fanciulla condotta sull’altare della dea Artemide dal padre Agamennone per essere immolata come vittima sacrificale, al fine di placare l’ira della dea e permettere alle navi greche di salpare verso Troia.
Secondo il Derrida di Donare la morte, Agamennone è l’eroe tragico, colui che deve assumere su di sé il peso della decisione e della colpa, sacrificare la propria figlia di fronte la propria comunità in nome di un valore etico superiore, di una guerra da combattere, compiendo quel gesto di assoluta irresponsabilità, l’uccisione dell’innocente, tramite cui solamente si apre lo spazio  pubblico per l’affermazione di un’autentica responsabilità.
Eppure in Timore e tremore Kierkegaard  lo dice chiaramente: Agamennone si è fermato sulla soglia, non ha portato alle estreme conseguenze questo movimento; egli piange, si commisera e condivide il proprio dolore con Clitemnestra. Le lacrime lo placano ed egli rimane incapace di fare esperienza della terribile responsabilità della solitudine. Nel suo parlare alla comunità, nel suo tentativo di condivisione, Agamennone si muove sempre – da buon greco – all’interno dell’éthos, all’interno cioè di una logica del calcolo del dare e del ricevere ragione delle proprie azioni. Ancora una volta, la logica del rendiconto.

L’unico che rimane, invece, nel silenzio della propria solitudine è Abramo. La sua storia è riportata in Genesi 22, 1-18:
Dio, per mettere alla prova la fede del suo prescelto, gli ordina di recarsi sul monte Moriah e di sacrificare il proprio figlio Isacco. Egli, senza esitazioni, conduce il giovane al luogo dell’immolazione, promettendogli che «Dio stesso provvederà all’agnello per l’olocausto» e, mentre sta per compiere diligentemente il sacrificio, impugnando già il coltello sopra il petto del figlio, un angelo del Signore gli ferma la mano, mostrandogli un ariete da immolare.

Abramo è dunque colui che tace, che rimane nell’intimo del proprio dolore. Egli non parlerà, né con la moglie Sara, né con gli altri membri della comunità, egli risponderà solamente a Dio dicendo «Eccomi», senza chieder ragione, senza dar ragione del proprio gesto, poiché, come scrive Derrida, Abramo è un testimone della fede assoluta che non può né deve testimoniare davanti agli uomini. E allora è soltanto nel segreto e nel silenzio di quell’attimo di assoluta irresponsabilità, in quell’assurdità orribile e muta dell’uccisione del proprio figlio, che si compie la massima apertura responsabile. é soltanto allora che si rompe il circolo dell’economico, del dare e rendere qualcosa in cambio di qualcos’altro. È soltanto allora che il sacrificio diviene assoluto, non simmetrico, eccedente il calcolo. Esattamente come il sacrificio di Cristo – un sacrificio per nulla, lo definiva il filosofo praghese Jan Patočka – che, nel silenzio dell’abbandono, nel riecheggiamento del grido di dolore del «perché mi hai abbandonato» urlato sulla croce , è immolato, messo a morte dalla stessa legge che il padre ha posto, la legge dell’Antica Alleanza. È solo tramite questo sacrificio, nell’attimo di assoluta paradossalità, di estrema irresponsabilità, in cui ogni logica economica e sociale salta, che qualcosa si compie: «Che cosa sarebbe accaduto se non mi avessi abbandonato?» Patočka ce lo dice: Nulla, nulla sarebbe accaduto.

Il paradosso della responsabilità, dell’assunzione della propria singolarità come essere sempre mio, prevede esattamente questo: ogni gesto responsabile ha in sé un nocciolo di irresponsabilità, un attimo singolare di assoluta paradossalità, in cui si trasgredisce e si eccede l’ordine economico, sociale e politico e in cui nulla può ricevere o dare ragione, poiché solo così l’uomo scopre il suo essere insostituibile e finito, il suo essere per la morte come morte sempre mia. Nessuno può morire al mio posto, diceva Heidegger.
D’altronde, cos’è altro è il sacrificio della crocifissione se non il rovesciamento dell’ordine e la scoperta e l’assunzione della propria finitezza, della propria insostituibile singolarità?
Torniamo dunque alla domanda iniziale: la tradizione, la ripetizione del sacrificio dell’innocente come gesto massimamente irresponsabile tramite cui solamente si accede ad una dimensione di autentica responsabilità, deve o non deve essere mantenuta?
Forse deve essere svuotata, decostruita, ma costantemente riattivata.


Nicole Paglia è laureata in Filosofia e ha scritto su riviste di filosofia e attualità. Studia fenomenologia e cristianesimo e sta per pubblicare un saggio intitolato «L’altro volto del Mediterraneo», sulla necessità di un ripensamento cristiano dell’idea di Europa.

Matteo:
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