illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Luciano De Fiore
Di quale fragilità si parla, nella serie televisiva appena conclusa? È il Palazzo (con la P maiuscola, alla Pasolini) edificato sull’intrigo e la sopraffazione dal Presidente degli Stati Uniti Francis “Frank” Underwood e dalla moglie Claire, l’algida e perfetta Robin Wright? Probabilmente no. Ammesso non si tratti di puro intrattenimento, e invero molta pubblicistica e persino qualche libro attesterebbero il contrario, la serie ambisce soprattutto a dar conto della fragilità umana. Universale. Che affetta anche i potenti della terra, anche il più potente di tutti, il POTUS, the President Of The United States.
Le cinque stagioni della serie di House of Cards, prodotte su Netflix e programmate in Italia da Sky, non sono l’ennesimo apologo sull’avidità della politica e sulla sete di potere dei suoi protagonisti. Intendono restituire piuttosto la vanità delle cose, di tutte le cose, e la loro sfuggente indeterminatezza. Delle costruzioni politiche come degli affetti, delle istituzioni pubbliche come degli affari privati. A volte, sembra che l’intera serie sia un lungo commento ad un pezzo dei Radiohead dallo stesso titolo, di qualche anno fa. Che faceva: «Non voglio essere tuo amico | Voglio solo essere il tuo amante | Non importa come andrà a finire | Non importa come comincia | Dimentica il tuo castello di carte | E io farò il mio».
Noi chi? Noi politici di alto livello. Noi siamo in grado di terrorizzare la gente. Di soffiare sul fuoco delle paure più profonde. Di attizzare l’odio e di farlo divampare, creando così un consenso che legittimi le nostre scelte. Specie se si tratta di scelte avversative, contro qualcuno: l’altro, il diverso, l’ebreo, il migrante, gli islamici. Siamo capaci persino di far sì che la gente approvi una guerra. Non importa contro chi. Non importa neppure che il nemico sia realmente un inimicus, qualcuno disposto ad odiarci, o un hostis, disposto comunque a combatterci. Creiamo noi i nostri nemici. Gli Underwood sanno farlo. Non schivano il corpo a corpo contro avversari reali, come il vecchio cronista Tom Hammerschmidt, implacabile nell’indagare sugli innumerevoli loro scheletri nell’armadio, o Will Conway, il giovane candidato repubblicano alla presidenza. Amano la rissa politica. Ma più ancora sanno combattere contro fantasmi che loro stessi hanno evocato dalla paura della gente, come l’ICO (Islamic Caliphate Organization), una specie di ISIS di Netflix. «Benvenuti nell’età della morte della Ragione»: ora è la paura a governare gli animi, non il rispetto. Non è vero, Presidente Underwood?
Quel che non sanno fare interessa però più di quello in cui riescono. Le mancanze attengono, com’è giusto, soprattutto al loro privato. L’indeterminatezza sessuale di Frank, per esempio. Non ci ha fatto mai davvero i conti. Sì, fa sesso con donne. Ma è attratto anche da maschi, fin dagli anni del college. Ha un morboso rapporto di complicità con la moglie Claire, ma tollera che lei vada con altri. Che cerchi in altri un amore che sa di non poterle dare. Intuendo che neppure Claire è in grado di amare. Quando lei s’illude di farlo (come con un maturo artista che le offre una sponda sentimentale), finisce col tradire. Perché questo sa farlo invece benissimo. Anche il rapporto con Tom Yates, il suo speechwriter, s’incrina nel momento in cui si dischiude uno spiraglio d’affetto. Avvelena Tom proprio mentre lo scopa, dimostrando tutta la propria impotenza, la sua incapacità di farsi madre, di amare, di sciogliersi dalle catene del narcinismo.
Anche i comprimari mostrano tutte le loro debolezze. A partire dal principale, un coprotagonista assoluto come Douglas “Doug” Stamper, il braccio destro tuttofare di Frank, il suo unico uomo fidato. Un “uomo del corso del mondo”, un uomo del fare, ancorché macerato dal dubbio e dal rimorso. Al quale presta il proprio volto un grande Michael Kelly, disponibile anche – per un calice di champagne – a raccontarvi nudo in una vasca da bagno la sua versione dei fatti.
Insomma, come dice giustamente un mio amico, non basta rinunciare ai propri fantasmi, alle proprie ossessioni: bisogna che essi rinuncino a noi.
Anche le occhiate in camera di Kevin Spacey, in cui sembra guardar dritto negli occhi gli spettatori per far capire cos’ha davvero in mente, altro non sono che un gioco di seduzione. Underwood vuol creare l’illusione che il politico stia prestando un’attenzione individuale a ciascun cittadino. Non è così. Sta solo perseguendo una strategia volta a consolidare il suo potere su di noi. Noi, il Popolo che Agamben scriverebbe con la maiuscola. Dell’altro popolo, quello dei reietti e dei diseredati, dei neri, Underwood non si cura, se non per calcolo e tornaconto personale.
Noi, invece, siamo in cima ai suoi pensieri. Quando il capo della CIA dice alla coppia presidenziale: «i vostri avversari sono quello che gli americani vorrebbero essere, mentre voi siete quello che vorrebbero diventare», la sceneggiatura batte un colpo. Tra l’essere e il diventare corre infatti il discrimine tra il godimento e il desiderio, tra la scelta per la vita o il saper vivere. Noi, il Popolo, siamo in grado di desiderare. Siamo preziosi, quindi. Possiamo desiderare con lui, Frank, o con la moglie Claire, determinata quanto e più del marito.
Entrambi sanno dov’è il potere: dietro il Potere. Non è alla Casa Bianca, che pure alternativamente abitano. È in chi possiede la Casa Bianca. Frank “si fa fuori” perché sa che è l’unico modo per controllare come si vien fatti fuori. Vuol dare le carte. Fino all’ultima mano. Anche quando il banco passa e Claire dà il mazzo. Asserendo – ed è l’ultima frase dell’ultima stagione – «è il mio turno». Non di gestire il potere. Di dimostrare la vanità del tutto.
Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.