illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Marta Gambetta
È comodo, facile da usare e ti porta ovunque. Ma tutto ha un prezzo. Secondo l’antropologo Marc Augé a cambiare è stata la nostra percezione dello spazio. Ormai non soltanto sulla poltrona di un aereo o di un treno, ma anche in macchina viviamo la città come un Nonluogo.
Partendo da Napoli, Totò e Peppino sono arrivati a Milano, per cercare il nipote Gianni, sottrarlo alle grinfie della bella Marisa, donna di spettacolo o ‘di malaffare’, e riportarlo a casa così che possa riprendere gli studi universitari. Arrivati a Pizza del Duomo sono completamente smarriti.
TOTO’- (a Peppino) Ma tu ci credi? ‘Sto paese è così grande che io non mi raccapezzo.
PEPPINO- Ma come si fa?
TOTO’- Bisognerebbe trovare qualcuno, che so? per sapere l’indirizzo di questa Marisa Florian…
PEPPINO- (indicando un vigile urbano) Domandiamo a quel militare là.
TOTO’- A quello? Ma che, sei pazzo? Quello dev’essere un generale austriaco, non lo vedi?
PEPPINO- E va bene… Siamo alleati!
TOTO’- Siamo alleati?
PEPPINO- Eh.
TOTO’- Già, è vero: siamo alleati.
PEPPINO- Siamo alleati.
TOTO’- Andiamo. (Lo prende per mano e vanno insieme dal vigile). (Al vigile) Excuse me!
VIGILE- Dica.
TOTO’- E’ di qua?
VIGILE – Sì, sono di qua. Perché, m’ha ciapa’ per un tedesco?
TOTO – Ah, è tedesco? (A Peppino) Te l’avevo detto io che era tedesco…
PEPPINO- Ah… E allora come si fa?
TOTO’- Eh, ci parlo io.
PEPPINO (scettico) Perché, tu parli…
TOTO’- Eh: ho avuto un amico prigioniero in Germania. Non m’interrompere, se no perdo il filo. (Al vigile) Dunque, excuse me, bitte schòn… Noio (indica sè e Peppino)…
VIGILE – Se ghe?
TOTO’- (a Peppino) Ha capito!
PEPPINO- (a Toto’) Che ha detto?
TOTO’- (a Peppino) Dopo ti spiego. (Al vigile) Noio… volevam… volevàn savoir… l’indiriss…ja..
VIGILE – Eh, ma bisogna che parliate l’italiano, perché io non vi capisco.
TOTO’- Parla italiano? (A Peppino) Parla italiano!
PEPPINO – (al vigile) Complimenti.
TOTO’- (al vigile) Complimenti! Parla italiano: bravo!
VIGILE – Ma scusate, dove vi credevate di essere? Siamo a Milano qua!
TOTO’- Appunto, lo so. Dunque: noi vogliamo sapere, per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare? Sa, è una semplice informazione…
Siamo negli anni cinquanta del Novecento e, al di là del comico, la situazione immaginata in Totò, Peppino e la… malafemmina è perfettamente plausibile. Oggi sarebbe facile, quasi immediato, trovare un indirizzo utile su Google, riportarlo su una delle svariate App di navigazione satellitare e raggiungere la posizione senza perdere troppo tempo. A partire dal Duemila infatti il dispositivo elettronico di localizzazione, GPS (Geographical Positioning System), si è diffuso come accessorio da automobile, per poi essere incorporato in ogni smartphone fino ad essere attualmente contenuto nei più recenti smartwatch. Questo dispositivo si basa sull’idea – sviluppata nella sua forma archetipa nel 1957, in occasione dell’annuncio della messa in orbita dello Sputnik – di usare i segnali inviati dai satelliti per determinare la posizione del ricevitore collocato sulla Terra. Il fisico Sergio Giudici nel testo intitolato Fare il punto. Una storia a ritroso della localizzazione dal GPS a Tolomeo ripercorre le tappe storiche che hanno portato all’impiego civile di una simile strumentazione fornendo al contempo un’analisi fisica, totalmente divulgativa, del meccanismo nel suo complesso. L’autore si impegna a spiegare come il sistema di posizionamento globale venga recentemente impiegato dalla popolazione mondiale più che altro come sistema di navigazione globale grazie alla geo-referenziazione che rappresenta “uno degli ingredienti concettuali dei navigatori GPS, non tanto per quel che riguarda la localizzazione in senso stretto ma relativamente alla estrazione di informazioni ulteriori” indispensabili per controllare che “l’utente mantenga la propria rotta lungo un percorso stabilito dalla navigazione assistita”. Ancora una volta l’essere umano è riuscito ad elaborare un sistema tecnologico in grado di semplificare le proprie pratiche nel senso di un risparmio in termini di tempo necessario all’esplicazione di pratiche accessorie alla comunicazione e al commercio nell’era dell’interscambio globale. Ma a che prezzo? Cosa è implicato in un simile rivolgimento verso l’esterno o nella esasperata ricerca dell’immediatezza?
La connessione che disperde
Seguendo le analisi dell’antropologo ed etnologo francese Marc Augè è possibile descrivere il contemporaneo, superando il concetto di modernità e di postmodernità, tramite delle nuove categorie appartenenti a quella che viene definita come surmodernità. Per comprendere cosa venga inteso con questo termine è necessario focalizzarsi sulle caratteristiche fondamentali del mondo in cui viviamo in quanto individui: la globalizzazione e l’urbanizzazione. La figura che definisce, e quindi restituisce il senso, della surmodernità è quella dell’eccesso, della sovrabbondanza di avvenimenti, dell’eccedenza di spazio conquistata attraverso l’invenzione dei mezzi di trasporto ad alta velocità e della possibilità di ricevere informazioni o immagini in tempo reale da ogni angolo remoto del pianeta, della supremazia dell’ego, per cui ogni individuo costituisce in sé e per se stesso un orizzonte di senso originario e perfettamente compiuto. Se l’urbanizzazione e l’interconnessione tecnologica (possibile a partire dall’introduzione di internet, dello sviluppo delle linee di trasporto ad alta velocità e dei social-media) hanno fatto del mondo una grande città, al tempo stesso ogni città è diventata un mondo, un “riassunto” di esso, in cui ritrovare tutte le barriere che la globalizzazione dovrebbe in quanto tale abbattere, arrivando così a costituire il paradosso per cui “la città-mondo relativizza o smentisce l’illusione del mondo-città in virtù della sua mera esistenza”. L’individuo si ritrova come fulcro in un universo all’insegna dell’istantaneo e si scopre come possessore di tutto il mondo in una mano, nella tasca o nella sua borsa, perfino al suo polso. Egli è presente a se stesso eppure smarrito nei luoghi che la globalizzazione produce o meglio nei nonluoghi che da essa originano. Il nonluogo, che si definisce inizialmente per opposizione al concetto di luogo antropologico come luogo identitario, storico e sociale, è uno spazio anonimo in cui “non sembra radicarsi alcuna relazione sociale” e che “crea paradossalmente nuove familiarità”. Come scrive Augè, “ci si sente meno sperduti, perfino all’altro capo del mondo, quando si entra in un supermercato. Le pubblicità, i negozi di articoli di lusso, i marchi contrassegnano i nuovi spazi della circolazione planetaria, come, per esempio gli aeroporti. Le iscrizioni e gli annunci in inglese contribuiscono inoltre a uniformare simbolicamente il pianeta, proprio come i monumenti dell’architettura internazionale che s’innalzano nelle grandi metropoli mondiali e sembrano farsi eco da un continente all’altro”. In questi nonluoghi il soggetto è spaesato, esperisce spazi in cui non si ritrova, che non riconosce come luoghi, che attraversa abbandonando la propria individualità e la propria storicità, per divenire semplice utente o consumatore, un “uomo medio” tra gli altri, in una “identità condivisa dei passeggeri, della clientela o dei guidatori della domenica”. “Solo ma simile agli altri, l’utente del nonluogo si trova con esso in una relazione contrattuale. […] Appena declinata l’identità personale (quella del passaporto o della carta di identità), il passeggero in attesa del prossimo volo si avventa nello spazio «esentasse», egli stesso liberato dal peso dei bagagli e degli impegni della quotidianità” diventa passeggero in attesa di partenza conquistando il proprio anonimato solo dopo aver dato prova della sua identità, solo dopo aver “controfirmato il contratto”.
Orientarsi tra i nonluoghi
Seguendo la stessa logica il “viaggiatore della domenica” attraversa le città senza passare per il loro centro, per quel centro che le identifica come luoghi storici, ma apprende tramite la segnalazione dei cartelloni posti lungo le autostrade, o le strade ad alta velocità, l’esistenza di questi punti denominati, non a caso, di interesse culturale o di rilevanza storia: egli è “in qualche modo dispensato dal fermarsi e anche dal guardare”.
Ma cosa succede quando questo stesso automatismo viene riprodotto all’interno delle città stesse? In una città come Roma ad esempio o, in modi diversi, in agglomerati urbani come Parigi e New York, se ci viene chiesto di raggiungere un punto x, che può essere di volta in volta il punto di incontro con i nostri amici, un luogo fissato per un colloquio di lavoro o semplicemente il nuovo ristorante, centro commerciale o simili, si imputa un dato, si ottiene un percorso e si attraversano una serie di incroci sotto la guida di una voce che ci identifica come utenti y in base a informazioni che rimbalzano oltre la nostra stessa nazione fino ad arrivare oltre il nostro pianeta. Nel luogo che ci ha visti nascere e/o crescere siamo guidati dal di fuori tramite una mappatura che ci identifica come punti in moto in uno spazio, che non ha nulla di identitario, sociale o storico. In altre parole siamo sempre più utenti dello spazio cittadino e sempre meno cittadini del luogo urbano.
Il paradosso è evidente: cerchiamo, vogliamo trovare, senza correre il rischio di perderci, senza perdere tempo, senza dover necessariamente guardare, osservare e riconosce, finendo per smarrire quel qualcosa che definisce la nostra stessa identità culturale, sociale e storica. Il pericolo di un simile smarrimento è notevole visto che le frontiere e le divisioni che vengono dimenticate, “presi come siamo dall’affascinante spettacolo della globalizzazione”, assumono la forma di muri invalicabili nelle rivendicazioni anacronistiche di nazionalismi o estremismi profondamente anti-liberali e anti-democratici. Sarebbe allora consigliabile forse riappropriarsi delle nostre città non come orizzonti univoci di significato cui rilegarci, ma come punti di partenza o fonti di identità personale (ma anche sociale), senza costruire barriere, ma riedificando quelle frontiere che non vanno intese come muri che vietano il transito, ma come delle soglie che invitano al passaggio, cercando di costituire un ideale alternativo in cui “tutte le frontiere siano riconosciute, rispettate e attraversabili, cioè un mondo in cui il rispetto delle differenze cominci con il rispetto degli individui”. Se non invertiamo la rotta saremo cittadini oltre le città, abitanti di un mondo intero nel quale tuttavia sarà sempre più difficile, nonostante gli innumerevoli navigatori satellitari, ritrovare la strada di casa.
Marta Gambetta è laureata in filosofia con una una tesi sul pensiero morale di Cora Diamond. Nel 2017 pubblica con la casa editrice L’Erudita una raccolta di poesie dal titolo L’alba al tramonto.