X

Come funzionano le Emoticon. E perché fate bene ad usarle

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Andrea Ferretti
Per molti sono la prova di un avvenuto imbarbarimento linguistico, la dimostrazione di una semplificazione del linguaggio. Ecco perché, invece, le Emoticon completano il testo e perché fate bene ad usarle.

Una storia di ascensori, mercurio e fumetti giapponesi
È il 1982 ed immaginate di leggere la paleo-chat (BBS) della Carnegie Mellon University. Un vostro collega pone questa domanda : “in un ascensore ci sono una candela accesa montata su una parete e una goccia di mercurio sul pavimento. Se il cavo si spezza e l’ascensore cade, cosa accadde alla candela ed al mercurio?”. Alcune ore dopo un secondo collega risponde: “ATTENZIONE. A causa di un recente esperimento di fisica, l’ascensore a sinistra è stato contaminato con il mercurio e ha riportato alcune bruciature. La decontaminazione dovrebbe essere completata dalle 8.00 di Venerdì”.  Cosa sta succedendo? Si è davvero svolto un esperimento del genere? La situazione viene percepita come ambigua, alcuni la prendono sul serio ed un terzo collega deve intervenire per spiegare come la storia dell’ascensore inagibile sia soltanto uno scherzo. Il tono della conversazione cambia e il problema diventa: come possiamo evitare fraintendimenti così grossolani? Si propone subito di distinguere i “jokes” inserendo un carattere specifico all’inizio del messaggio, ma quale scegliere? Prima vengono proposti segni convenzionali come “*” e “%”, poi con “&” e “#” vengono immaginate delle motivazioni (secondo i proponenti somiglierebbero ad un giullare panciuto e ad una risata a denti scoperti), infine Scott Fahlman ha l’idea vincente:

19-Sep-82 11:44    Scott E Fahlman             : – )
From: Scott E Fahlman <Fahlman at Cmu-20c>
I propose that the following character sequence for joke markers:
: – )
Read it sideways.  Actually, it is probably more economical to mark
things that are NOT jokes, given current trends.  For this, use
: – (
=

Inizia così la storia delle emoticon (emotion + icon). Fa sicuramente un certo effetto vedere nero su bianco il momento esatto in cui è iniziato qualcosa con cui molti di noi hanno a che fare tutti i giorni.
La seconda tappa di questa storia si svolge dall’altra parte del Pacifico, in Giappone. Si tratta di un episodio decisamente meno bizzarro: nel 1998 Shigetaka Kurita è un ingegnere del team di sviluppo di NTT DoCoMo, colosso delle telecomunicazioni che sta per lanciare i-Mode, la prima piattaforma di internet mobile. Lavorando ai sistemi di visualizzazioni delle immagini, Kurita inventa le emoji (immagine + scrittura + carattere), ovvero un insieme di 176 pittogrammi di 12×12 pixels. Nella sua rielaborazione nipponica, l’emoticon di Fahlman, costituita dalla combinazione di caratteri tipografici, diventa una vera e propria icona. Il primo set di emoji inoltre non comprende soltanto “faccine”, ma anche animali, cose, segnali, numeri, simboli metereologici. È subito chiaro come da qui alle interfacce delle attuali chat per smartphone non ci sia che una differenza di grado. Ma perché Kurita ha scelto di creare le emoji così come le ha create? Stando alle sue dichiarazioni, si è ispirato ai manga, i tipici fumetti giapponesi, nonché a vari aspetti ed esigenze comunicative tipiche del costume del suo paese.

Oggi le emoji sono strumenti comunicativi che spiccano per la loro pervasività. Nella misura in cui siamo presenti sui social networks, nelle chat o più in generale su internet ne siamo esposti; mandiamo e riceviamo emoji continuamente. Diventa così necessario chiedersi: come cambia il nostro comunicare al tempo delle emoji? Come interagiscono con il linguaggio verbale? È un fenomeno che ha qualche rilevanza nel nostro modo di pensare e pensarci nella comprensione con e degli altri?
Dalla rapida ricognizione sulla loro nascita già abbiamo ottenuto due elementi importanti:
a) il legame con la libertà di scherzare, b) il processo di stilizzazione (storico, culturale, prospettico) che è alla base del loro essere immagini.
In genere le origini sono buoni indizi per cercare di chiarire la natura di qualcosa 😉.

Le emoji in aiuto delle parole: come cambia il “corpo” del discorso?
Ogni buon manuale ci insegna come le parole che effettivamente pronunciamo non funzionino mai da sole. Al contrario esse sono sorrette da un insieme di conoscenze, presupposizioni culturali e percezioni condivise dai parlanti, di natura tanto verbale quanto non verbale. Dunque, rispetto alla normale conversazione faccia a faccia, cosa cambia nella comunicazione in chat? Non viene meno la conoscenza del sistema-lingua, né tantomeno le presupposizioni relative ai ruoli sociali, ai registri stilistici e alle finalità dello scambio comunicativo. Non viene del tutto meno neanche la condivisione di un comune ambiente percettivo: tutti i partecipanti percepiscono lo schermo dello smartphone e la sua interfaccia grafica, che definiscono le dimensioni e le possibilità spaziali in cui avviene la comprensione. Non possiamo direttamente indicare oggetti fisici (possiamo farlo tramite una foto…), ma possiamo comunque usare “questo” riferendoci ad un messaggio precedente (pensate alla funzione “quote” da poco disponibile anche su WhatsApp).

Ciò che invece viene completamente meno è la presenza del corpo: in chat non si percepisce la fisicità dell’altro così come non si può disporre della propria. Se mettiamo per un attimo da parte i messaggi vocali, non ci rimane nemmeno la voce, protagonista della comunicazione telefonica.
Il corpo può significare in tanti modi differenti, parzialmente riassumibili in atteggiamento, espressione delle emozioni, tono della voce, gesti delle mani (per non parlare degli occhi… del resto “uno sguardo vale più di mille parole”, no 😊?).  L’interazione tra le parole e ognuno di questi aspetti può diventare molto rilevante nella concretezza del singolo discorso, specie se non ci limitiamo a pensare la comunicazione come un semplice scambio di “dati”. Questa è infatti una relazione che si svolge su più piani, consistente non solo nell’aspetto informativo (faccio conoscere/conosco qualcosa), ma anche (almeno!) in quello emotivo (faccio sentire/sento qualcosa) e pratico (faccio fare/faccio qualcosa). La complessa interazione tra corpo e linguaggio emerge chiaramente se immaginiamo un processo di comprensione di questo genere: “è vero, mi ha chiesto di fare un lavoraccio. Però da come me lo ha chiesto, ho capito che l’ha fatto perché si fida”. Tramite le emoji abbiamo uno strumento per poter in qualche modo recuperare, anche in chat, questo importantissimo come.

Cosa fanno infatti le emoji? Ci mettono a disposizione una sorta di corpo comune, tramite il quale cercare di rimettere in gioco quelle componenti fisiche che la specificità del medium fa venire meno. Ovviamente in questa stessa ottica si possono chiamare in causa anche i messaggi vocali, la possibilità di inviare foto, video… ma le emoji differiscono da queste altre possibilità per il fatto di essere le stesse per tutti gli utenti. Io non uso il MIO sorriso, ma invio IL sorriso-emoji. Come le parole articolano i sensi ricavabili dell’esperienza in una serie di classi più o meno condivise dai parlanti, così le emoji (e mi riferisco principalmente a quelle che rappresentano parti del corpo, gesti, persone, emozioni, rapporti tra persone) tendono a fare lo stesso con gli elementi semanticamente rilevanti, anche se non verbali, della comunicazione faccia a faccia. Più che fornire un repertorio delle nostre emozioni, significano, nella dimensione visiva dell’immagine, un insieme di classi di elementi corporei che riconosciamo come significativi. Ci danno un corpo da esibire agli altri, che può essere comune in quanto corpo astratto e già significante.

In questo modo è facile vedere come le emoji svolgano la funzione comunicativa di a) mostrare il proprio tono emotivo in un discorso e dunque quella strettamente correlata di b) diminuire la possibilità di ambiguità e di incomprensione, ma anche di c) influenzare la disposizione emotiva e dunque le risposte verbali e pratiche degli altri. Inoltre, tornando a Fahlman, rendono possibili in chat alcuni modi di usare le parole, come il sarcasmo o certi generi di ironia, che senza emoji sarebbero molto più difficili da praticare. Aiutano quella multistratalità e complessità che è propria della comunicazione umana, permettendoci un uso più complesso e differenziato delle parole stesse.

Le parole in aiuto delle emoji: come cambia il “tono emotivo” del discorso?
Le emoji sono dunque, in fin dei conti, dei semplici surrogati del corpo? Gli strumenti di comunicazione sono sostanze pericolose: più le usi e più ti usano. È inevitabile e non è un male, anzi. Come ci insegna l’episodio della loro nascita, le emoji non sono trascrizioni neutrali o calchi di presunte espressioni emotive-gestuali del tutto universali e naturali. Al contrario, come segni astratti costituenti un corpo comune fortemente stilizzato, sono il risultato di precise scelte culturali, che hanno selezionato, evidenziato e reso significativi alcuni tratti corporei a scapito di altri. Non sono l’espressione surrogata di un’emozione, ma solo una delle sue rappresentazioni iconiche possibili. Considerate nel loro insieme, costituiscono uno dei tanti tentativi possibili di divisione e organizzazione grafico-simbolica di territori esperienziali come quello dell’emozione e della gestualità. Essendo solo un tentativo possibile, è anche un tentativo vago ed aperto a continue ritrattazioni e modifiche. Si può sentire il desiderio di emoji che ancora non esistono, così come si può discutere sul senso di una di esse o sui loro rapporti reciproci. Questa stessa parzialità e il continuo uso che ne facciamo, ci spingono inevitabilmente a pensare con le emoji il nostro comunicare non verbale e dunque a raccontarlo agli altri tramite di esse.

Le “faccine” così, nella loro incompletezza, ci interrogano. Osservandole è facile accorgersi di quanto possano farci pensare su noi stessi. Che può significare la faccina sol sorriso rovesciato? Il nostro usarle quotidianamente è dunque la pratica in cui le sfumature di significato di questo corpo comune vengono concretamente contrattate dall’intelligenza sociale. Nate a contatto con la cultura giapponese, diventano patrimonio comune e inevitabilmente si contaminano e declinano in sensi diversi nelle diverse comunità che le usano. Potremmo quasi dire che nel nostro pensare le emozioni con le emoji siamo un po’ più giapponesi, mentre i giapponesi, nel loro essere pensati da tutti, sono diventati un po’ meno giapponesi.

Le emoji e il corpo riflesso
Le faccine ci fanno pensare. Tuttavia, se mettiamo parzialmente da parte la gestualità (alcune sue espressioni particolarmente convenzionali, come il “fare le corna”), l’uso del corpo, l’espressione delle emozioni e il tono di voce hanno sempre un che di involontario ed irriflesso. Noi possiamo soltanto più o meno gestire queste manifestazione nel loro affiorare, ma, almeno di non essere dei perfetti attori, rimarrà sempre qualcosa della loro immediatezza. Le facciamo senza pensarci. Le emoji invece “non ci scappano”, ma le usiamo come mezzi di riflessione iconica sull’emozione. In questo senso non soltanto le emoji a) sostituiscono l’assenza dei singoli corpi con un corpo comune significante, b) stilizzano il corpo, facendoci pensare la nostra esperienza nei termini della loro iconicità, ma anche c) modificano il modo in cui l’espressione dell’emozione e la corporeità si manifestano all’interno della comunicazione. Dal corpo che si da e tende a fuoriuscire, con la sua unicità ad un corpo comune, standardizzato, che si presta ad essere fatto esprimere riflessivamente. In questo senso l’uso di più emoji, anche abbinate tra loro o ad emoji che non significano direttamente la corporeità, può portare all’espressione di sensi anche piuttosto complessi, sfumati ed articolati. Se da una parte l’uso comune porta verso una certa uniformità, dall’altro l’estrema vaghezza, versatilità e combinatorietà può portare all’espressione di significati estremamente personali. Alla fine si scopre che pur parendo dalle emoji come supporto delle parole (come aiuto delle parole in quanto sostituto del corpo), si può benissimo rovesciare il rapporto e pensare comunicazioni in cui sono le parole a doverci aiutare per cogliere correttamente il senso complesso espresso dalle emoji.

In un’ottica di “etica” del linguaggio, il problema non dovrebbe tanto essere se giocare o meno questi giochi, quanto se quello di giocarli sia in una viva tensione immaginativa ed intellettiva in connessione con tutto l’insieme delle altre pratiche sociali e comunicative che padroneggiamo. Si tratta cioè di giocarli creativamente ed efficacemente. Probabilmente le emoji segregate dal resto delle prassi linguistiche in cui si sostanzia la nostra vita comune, possono contribuire a generare un “sonno della ragione”. I “mostri” della comunicazione in genere nascono proprio quando determinate pratiche si assolutizzano, estraendosi/astraendosi dal resto della vita sociale e culturale. Se come dice Wittgenstein “II nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi”, il punto non sarà tanto conoscere perfettamente questo o quell’edificio, quanto il sapersi orientare, passando agilmente da un quartiere ad un altro. Nella consapevolezza del fatto che sì, stiamo attraversando zone diverse, ma che siamo pur sempre gli stessi cittadini nella stessa città.


Andrea Ferretti è laureato in filosofia con una tesi sul Senso Comune nel pensiero di G. B. Vico. È appassionato di calcio, folklori contemporanei e giochi di ruolo.

Matteo:
Related Post