Èil 1986, in edicola esce il primo albo di un fumetto horror, tutto italiano, edito dalla Sergio Bonelli Editore e ideato da Tiziano Sclavi: Dylan Dog. Negli anni 90 vende mezzo milione di copie, al cui computo andrebbero sommate le vendite relative alle ristampe e alle varie collane complementari. Nel 2016 l’albo mensile dell’Indagatore dell’Incubo festeggia i suoi 30 anni di pubblicazione, restando il secondo fumetto più venduto in Italia dopo Tex. Parlare di questo fenomeno editoriale come di un fumetto horror è evidentemente riduttivo. Attraverso numerosi riferimenti letterari e musicali, snodati nelle tavole firmate da alcuni tra i più rilevanti disegnatori italiani, Dylan Dog è sopravvissuto a tutti i rivolgimenti culturali degli ultimi decenni senza smettere di farsi interprete (seppur nelle sue integerrime convinzioni) delle paure, delle contraddizioni e degli orrori della modernità. L’ultimo esempio di questa sorprendente abilità è magistralmente rappresentato dall’albo 367 (aprile 2017) dal titolo La ninna nanna dell’ultima notte. Dylan è questa volta alle prese con una fuga di massa dei bambini di Londra dalle loro famiglie. Non solo, gli stessi bambini, riunitisi in gruppo, sono gli artefici di terrorizzanti e pericolose rivolte nei confronti dei loro genitori. Affiancato dalla psicologa infantile Domitilla Foster e dal burattinaio Markus Kouvas, l’Indagatore dell’Incubo riuscirà a fare luce sulla faccenda: “I bambini si stanno rivoltano perché non esistono più le fiabe di una volta” afferma Markus e prosegue nella tavola successiva “i vostri figli non conoscono più la paura del lupo cattivo, così sono diventati loro il lupo cattivo!” Quello dell’edulcorazione delle favole, e dei cartoni animati, è un processo che nell’epoca contemporanea ha raggiunto il suo apice massimo di realizzazione e che va forse inserito in un andamento socio-culturale di respiro più ampio. Nell’albo sopra citato le fiabe sono interpretate come strumenti di selezione genetica che “servivano per passare le informazioni utili per la sopravvivenza alle generazioni future”. Niente da eccepire a questa interpretazione, anzi. La quasi totale assenza nel nostro presente del concetto di limite è sicuramente in parte ascrivibile allo snaturante sviluppo imposto a queste narrazioni ed è emblema di una più diffusa tendenza all’eliminazione del concetto e del sentimento della paura dalla vita sociale. Nel XXI secolo in Occidente l’individuo vive in un mondo in continuo divenire, nella direzione di una espansione illimitata, guidato dall’implementazione di nuove tecnologie; nella sua infanzia non esperisce il concetto di limite – in nessuna declinazione possibile, fosse anche la più banale – e si ritrova, ormai adulto, ad avere raramente tempo o spazio per assaporare riflessivamente il timore derivante da qualcosa di minaccioso. Pochissime persone, ad esempio, sostano sul limite spaventate dall’alta velocità, dagli effetti di droghe più o meno leggere, dalle conseguenze di un’azione avventata o di una frase pronunciata con troppa leggerezza. In verità giace, silente, sotto questa linea di tendenza il più grande rimosso della società contemporanea: la morte.
Zygmunt Bauman nel 1992 scriveva, riprendendo le riflessioni di Baudrillard, di come una prima rimozione del fenomeno del decesso fosse stata attuata con la creazione dei cimiteri e la loro successiva dislocazione ai confini delle città. In Mortalità, immortalità e altre strategia di vita il sociologo polacco teorizza, infatti, due movimenti coesistenti nella società moderna e post-moderna: da una parte il costante tentativo di ostacolare la morte grazie allo sviluppo delle tecniche mediche (attuando una riduzione del morire a l’essere ucciso), dall’altra il tentativo di costruire svariate forme di immortalità surrogata (tutte incentrate sulla devozione a un ideale superiore o sulla pratica del progettare oltre la propria morte). In effetti una certa «decostruzione della mortalità» è stata declinata nella storia, in varie riprese e in vari modi, da molte civiltà.
Seguendo la lezione di Heidegger è effettivamente ben visibile quanto sia difficile per l’essere umano rapportarsi al morire. Egli deve sostenere questa indefinibile prospettiva e, per di più, deve al contempo farsi carico del sentimento dell’angoscia, ovvero di quell’emozione che rivela la morte – e sempre l’accompagna – in quanto «poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile» dell’individuo. La morte è presente, ma allo stesso modo sfugge, non si può esperire se non in riferimento alla morte altrui, che però beffardamente può manifestarsi solo come un fatto, come un evento, celando la sua natura di possibilità ultima di tutte le possibilità dell’individuo. In altre parole, noi siamo vicini agli altri nel loro giungere alla fine, ma «nessuno può assumersi il morire di un altro». Nella celebre opera Essere e tempo del filosofo tedesco, il morire sfonda lo stesso concetto limite del decesso, della fine, e consacra la singolarità e l’insostituibilità della persona: «La morte dell’Esserci non si lascia caratterizzare adeguatamente mediante nessuno di questi modi di finire. […] L’Esserci, allo stesso modo che, fin che è, è già costantemente il suo “non ancora”, è anche già sempre la sua morte.» Non differentemente da quanto detto fin ora, anche in Heidegger la vita quotidiana si configura come fuga dell’essere umano dal suo reale essere, che coincide proprio con il suo ineluttabile morire. Detto in termini filosofici l’individuo fugge inautenticamente dal suo stesso essere nient’altro che l’insieme di tutte le sue infinite possibilità in vista di questa possibilità ultima.
Riflettendo: se non si è disposti ad accettare di provare paura nei confronti di qualcosa, come sarà possibile anche solo pensare di poter provare angoscia rispetto al nulla (e in particolare a quel niente assoluto incarnato dalla morte)? O ribaltando la questione, è possibile considerare l’eliminazione del sentimento della paura come frutto di una tutela precauzionale rispetto all’eventualità di vivere il sentimento d’angoscia che ci costituisce?
Ecco allora che se sul piano sociale la morte viene sviata, posticipata, secondo le strategie ben illustrate da Bauman (o resa innocua tramite la spettacolarizzazione del morire messa in atto dai mass-media), a livello individuale si allontana e si posticipa l’idea del proprio “finire”. Ma come di consueto avviene, anche in questo caso il rimosso inevitabilmente ritorna, e, anche se nessuno (eccezion fatta per Dylan Dog) è disposto a sedersi a giocare a scacchi con la triste mietitrice anzitempo, il sentimento dell’angoscia riaffiora attraverso un ordine sociale che disperde l’individuo nell’infinito e si perde a sua volta nell’indefinito. L’interrogativo è ora legittimo: come invertire la rotta? come vivere fino in fondo l’angoscia e, tramite di essa, un’esistenza autentica senza una simile rimozione? Come assumere su se stessi la propria morte nella maniera di una anticipazione, come auspicato dal filosofo tedesco? Di sicuro non è un quesito semplice a risolversi. Mentre si va a tentoni in cerca di una risposta, sarà utile sfruttare tutto ciò che, come il fumetto di Sclavi, si riveli in grado di affrontare sotto molteplici angolazioni la realtà della nostra epoca mettendo in luce gli aspetti più inquietanti dell’esistenza umana.
Marta Gambetta è laureata in filosofia con una una tesi sul pensiero morale di Cora Diamond. Nel 2017 pubblica con la casa editrice L’Erudita una raccolta di poesie dal titolo L’alba al tramonto.