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Die With Me. L’App che ci insegna a morire insieme
20/02/2018|L'ANALISI

Die With Me. L’App che ci insegna a morire insieme

Die With Me. L’App che ci insegna a morire insieme
illustrazione di Simona Bramucci
parole di Andrea Ferretti

Die With Me è la chat che funziona solo quando l’autonomia della batteria scende al 5%. Un’applicazione più ansiogena che catartica, ma che può far riflettere sulla percezione del corpo tecnologico proiettato nello spazio-schermo.  

A prima vista Die with me sembra il motto “mal comune mezzo gaudio” fatto app. Una chatroom a cui si può accedere soltanto quando la batteria del proprio smartphone non supera il 5% non può che portare con sé uno strano insieme di sensazioni agrodolci. Otre il nome, anche l’interfaccia minimalista, nera e bianca, con la sola percentuale della batteria in rosso, comunica subito come si stia giocando con il morire. Questo ambiente digitale, ideato e lanciato a gennaio 2018 dal media artitst belga Dries Depoorter, sarebbe un luogo ironicamente funebre, adeguato allo scambio di qualcosa come “le nostre ultime parole”. È priorio Depoorter a sostenere che, grazie a Die with me, possiamo finalmente morire “together in a chatroom on your way to offline peace”. Quel che proveremo allora sarà una sorta di liberazione catartica tramite la rappresentazione metaforica e la condivisione di quest’evento. Insomma, di nuovo, “mal comune mezzo gaudio”: lamentiamoci insieme, scherziamoci su e cerchiamo di mettere il prima possibile le mani su un caricabatterie.

Catarsi Vs Ansia
Personalmente, più che catartica, ho trovato Die with me giocosamente ansiogena. Se si prova ad immergersi nell’esperienza, si può provare effettivamente la sensazione affannosa di dover riempire con qualcosa un tempo che si fa via via sempre più breve. In un certo qual senso stiamo per scomparire davvero. Più il tempo si accorcia, più sia addensa e sembra richiedere una serietà che, data la natura non definitiva di questo scomparire, non può avere effettivamente luogo. Quando lo schermo infine si fa nero, l’accostamento di un problema così comune, prosaico e quotidiano come lo scaricarsi dello smartphone e di un evento solitario, misterioso e irripetibile come la morte non può che costringerci a sorridere. La tensione si rilassa del tutto e la loro asimmetria appare troppo grande, troppo evidente.

Tuttavia Die with me è stata lanciata proprio per far sentire questo smarrimento e dunque per indurci a pensarlo. Se in quanto chatroom non sembra essere particolarmente entusiasmante o stimolante, in quanto opera d’arte potrebbe suggerire una nuova prospettiva da cui guardare alla nostra esperienza digitale. Si può provare, un po’ per gioco e un po’ sul serio, a seguire quanto più possibile le suggestioni di Die with me, cercando di individuare in che modo possano incontrare e mettere in discussione il nostro ordinario pensarci in relazione alla tecnologia. Del resto questo “far rimuginare”, anche e soprattutto sulle cose che crediamo di conoscere meglio, non è uno dei principali compiti e privilegi dell’arte?

Il corpo
Die with me rimanda senza dubbio una metafora di fondo: il nostro smartphone è un corpo vivente, un corpo attraverso cui viviamo che, scaricandosi, muore e ci fa morire con lui. Ciò che connette l’ambito della morte-corpo e quello della batteria-smartphone sembra essere innanzitutto il tratto della dipendenza. Come ha dichiarato lo stesso Depoorter a The Verge (leggi l’intervista), Die With me nasce per condividere un sentimento «that our generation understands. The feeling of being dependent on technology». Assumendo dunque la distinzione ordinaria, colloquiale, tra “anima o mente immateriali” e “corpo materiale”, l’artista sembra suggerire come lo stesso legame di dipendenza che corre tra corpo e mente sia oggi percepito anche tra smartphone e utente. Per noi uomini del 2018 è come se l’anima stia al corpo come sta allo smartphone e che dunque questo si imponga come un vero e proprio “nuovo corpo”. La dipendenza qui non sembra essere intesa à la Cartesio, ovvero come rapporto tra due sostanze che, in quanto enti in loro stessi completi, possono stare anche indipendentemente l’una dall’altra. Al contrario, la dipendenza a cui veniamo rimandati è molto più simile a quella pensata da Aristotele tra un’anima “forma” o “atto” del corpo e il corpo organico avente invece la vita “in potenza”. Anima e corpo si possono definire riferendosi l’una all’altra: si tratta di due principi interdipendenti che soltanto nella loro unione intrinseca e necessaria esistono come sostanza vivente.

Tornando a Die with me, la nostra anima, le nostre facoltà percettive, immaginative ed intellettive, appaiono non soltanto come ciò che governa il funzionamento (“informa”) di un corpo organico, ma anche come ciò che svolge la stessa funzione rispetto ad un corpo tecnologico. L’uomo contemporaneo appare o come a) due composti, in quanto la sua anima mette in moto due corpi distinti e diversi, o come b) un composto triplo, se pensiamo il corpo tecnologico non in quanto altro corpo, ma come un ulteriore insieme di organi aggiunti e direttamente interfacciati con il primo.

Il corpo tecnologico
A quali di queste due possibilità ci fa pensare l’opera di Depoorter? L’anima-mente immateriale dell’uomo sembra legarsi intrinsecamente ad un corpo tecnologico e si concretizza, si mostra, appare attraverso di esso. Quando la batteria di questo corpo si scarica, il legame si spezza e noi, in un certo qual senso, moriamo. Ma quali sono le caratteristiche di questo corpo? E dunque quali sono quelle di questo morire? Tornando al nostro pensare quotidiano, noi siamo soliti intendere il corpo come materiale e posto in uno spazio. Lo spazio non è soltanto il “grande scatolone”, ovvero una cosa in cui le altre cose stanno, ma soprattutto ciò che definisce i “rapporti di coesistenza fra le cose”. È infatti soltanto spazialmente che i nostri corpi si ordinano, si distinguono, si individuano e, proprio in quanto distinti ed esterni gli uni agli altri, entrano in relazione gli uni con gli altri. Lo spazio e il nostro corpo sono così altri due concetti inseparabili: il nostro corpo materiale è ciò che ci pone spazialmente in una relazione esterna con gli altri corpi e, soprattutto, con i corpi degli altri. Questo corpo, oltre ad essere immerso nelle relazioni spaziali, è un corpo organico e, in quanto ha degli organi, svolge delle funzioni. Tali funzioni (metaboliche, propriocettive, motorie, sensibili, cogitative) sono ciò che determina le specifiche modalità con cui il nostro corpo “umano” entra in relazione con gli altri corpi.

Il corpo tecnologico è il mio corpo
Se siamo chiamati a pensare il nostro smartphone in quanto corpo tecnologico, come continuano a giocare queste categorie? Indubbiamente nella sua materialità questo può essere pensato in analogia con un corpo organico, ovvero come un tutto unitario in cui ogni elemento di plastica, silicio, rame, alluminio, vetro, ecc… è disposto per svolgere un ruolo ben preciso e coordinato con gli altri al fine del corretto funzionamento dell’insieme. L’analogia tra la macchina (genericamente intesa) e il corpo vivente è del resto un grande leitmotiv del pensiero moderno dal momento in cui si è iniziato ad interrogare sulla specifica complessità del vivente e sulla sua origine. Questa analogia si approfondisce però se pensiamo la macchina non come un corpo vivente qualsiasi, ma come il nostro corpo, come il corpo che siamo.

In effetti, come non sentiamo l’interezza dei profondi processi bio-chimici che avvengono nel nostro corpo (possiamo sentire genericamente la digestione, ma non sentiremo mai i succhi gastrici che alterano la struttura molecolare dei cibi, così come non sentiremo mai le nostre ghiandole secernere i loro ormoni, ecc…), allo stesso modo non possiamo sentire i processi chimico-fisici che permettono allo smartphone di funzionare. Non possiamo essere consapevoli dell’insieme delle reazioni che portano all’esaurirsi della batteria, ma nondimeno questo ci appare come un sintomo/segno sullo schermo dello smartphone. Un mal di pancia dopo un’abbuffata all you can eat in fondo non è niente di troppo diverso dal punto di vista del tipo di segno e del messaggio veicolato. Se proviamo ad isolare i fin troppo evidenti elementi di differenza, l’analogia regge anche nella misura in cui questi sintomi, nella nostra vita quotidiana, tendono ad imporsi quasi con la stessa urgenza dei veri e propri sintomi corporei. Questo vale tanto per le segnalazioni interne quanto per quelle esterne: le continue notifiche di Whatsapp e di Facebook possono essere tanto fastidiose quanto due vicini che chiacchierano al cinema, così come una memory card esaurita può essere tanto incapacitante quanto il dover andare urgentemente in bagno.

Il corpo tecnologico è Il mio corpo potenziato
Se ci si sposta sul piano delle funzioni svolte dal corpo, qui probabilmente il corpo tecnologico apparirà per lo più come potenziamento del corpo organico. Quando Depoorter afferma di aver pensato Die with me dopo essersi perso in una città sconosciuta, immaginiamo facilmente il senso di smarrimento dovuto al dover improvvisamente rinunciare al sistema di geolocalizzazione e di mappe dello smartphone (leggi qui l’articolo che Globus ha dedicato all’uso del GPS). Sicuramente questi organi del corpo digitale potenziano enormemente la nostra capacità biologica di orientamento e comprensione dello spazio in cui ci muoviamo: per chi ha iniziato a guidare al tempo del “navigatore” è del tutto impensabile e profondamente ansiogeno avventurarsi in aree sconosciute senza di esso. Anche applicazioni come Shazam, certi modi di usare la fotocamera (mi riferisco in particolar modo alla possibilità di prendere “appunti visivi”) o il semplice poter telefonare (farsi sentire e poter sentire ovunque e da ovunque) rimandano all’idea di un secondo corpo innestato su quello organico. Se dunque consideriamo il corpo tecnologico come una sorta di espansione e intensificazione delle nostre funzioni organiche, allora la sua morte non sarà tanto la mia morte, quanto un doloroso e menomante downgrade, che ristabilisce vecchie quanto inusuali relazioni con gli altri corpi che appaiono nello spazio. In questo senso la rappresentazione della sua morte mostrata da Die with me rivela l’oramai indistricabile dipendenza tra noi e il nostro corpo potenziato. Questa dipendenza è però una questione pratica e di costume; è una scelta culturale: a seconda di quelle che sono le nostre posizioni etico-politiche potremmo benissimo considerare questo morte come una liberazione. Siamo infatti per lo più riportati ad un ordine di pensieri relativo ad uno strumento, dunque alla valutazione dei suoi effetti sul nostro mondo e sulle nostre facoltà in termini di pro e di contro. Difronte alla difficoltà enorme che facciamo per imparare nuove strade proprio in quanto sappiamo di poter contare sul GPS, come non ripensare all’invettiva scritta da Platone proprio contro la scrittura assassina della memoria e della sapienza?

Il corpo tecnologico è Il mio corpo potenziato nello spazio-schermo
Si può provare ad andare oltre questo punto e pensare un rapporto non soltanto strumentale con il corpo tecnologico? Un rapporto che implichi un nuovo composto, in cui noi, per esistere come individui, dobbiamo essere proprio quel corpo che muore quando si scarica la batteria? Il nostro corpo organico appare nei suoi rapporti spaziali e dunque ci pone in essi. In quanto siamo questo corpo ci muoviamo, tocchiamo e modifichiamo l’ambiente che ci circonda: la dimensione del nostro corpo è la stessa dimensione in cui noi siamo, interagiamo e in cui abbiamo la nostra realtà. Il corpo tecnologico, come si è già visto, è oggettivamente come quello biologico: è un corpo materiale che appare nello spazio tridimensionale dei corpi fisici ed è inoltre in grado di inviarci dei sintomi del suo stato interno e del suo esterno. Tuttavia, se pensiamo di essere quel corpo, la dimensione in cui appariamo come individui grazie ad esso non può essere quella dello spazio individuato dai corpi fisici, bensì è lo spazio bidimensionale dello schermo. In quanto siamo sullo schermo entriamo effettivamente in un contesto esperienziale attingibile solo in quanto “incarnati” nello smartphone. Posso trovare l’indirizzo del mio hotel anche semplicemente chiedendo informazioni ai passanti o consultando una mappa cartacea, ma non posso inviare una emoji ad un amico in Messico se ho la batteria scarica. Se pensiamo alla home di un social network o all’interfaccia in cui si svolge una chat, individuiamo delle modalità ed una serie di funzioni in cui a darsi è proprio la nostra presenza che si relaziona spazialmente a quella degli altri. Non erano proprio questi aspetti quelli che definivano il nostro essere individuati da un corpo? Appariamo nello spazio piatto dello schermo bidimensionale in virtù del modo in cui è organizzato graficamente e la nostra presenza, così come quella degli altri, vi appare e vi scompare: l’entrare in relazione, l’incontrare gli altri col corpo tecnologico significa allora incontrarsi con dei corpi intermittenti. In base alle varie applicazioni questi saranno posti, di volta in volta, gli uni sopra gli altri o gli uni accanto agli altri. Il ritmo della loro intermittenza deriverà più o meno dal nostro agire volontario nello spazio-schermo: in una chat ad ogni invio seguirà una apparizione, mentre sulla home dei social sarà un algoritmo a determinare l’effettiva portata della nostra visibilità. Dunque anche lo smartphone, come il corpo organico, ci permette di entrare spazialmente in relazione con gli altri, di apparire agli altri. Ci dona un modo di apparire che deve la sua visibilità non al semplice stare o essere, ma al suo agire, al suo voler comparire e farsi luminoso agli e per gli altri. Questo individuo di pura energia è in virtù di un altro corpo: è un altro composto di anima e corpo.

La nostra esistenza bidimensionale, semplice immagine e luce, è proprio ciò che vediamo scintillare e progressivamente affievolire sullo sfondo nero della chatroom di Die with me. L’applicazione mette al centro della scena questo morire, cerca forse persino di renderlo perspicuo e solenne, di farcene consapevoli. Vista sotto la lente dello scomparire, la cosa più emozionante dell’intera esperienza è forse anche quella più banale e apparentemente insensata: quando hanno a disposizione i loro ultimi sussulti, le loro ultime luci, i nicknames che appaiono nella chat si cercano. Un moribondo dovrebbe usare le proprie ultime parole per conoscersi e farsi conoscere, dicendo finalmente la verità ultima su di sé. È questo del resto l’unico privilegio di uno sguardo senza futuro: guardarsi potendo fare di sé un qualcosa di cui poter dire tutto, in quanto niente deve ancora venire a svelarsi. Le lucine morenti di Die with me usano invece le loro ultime parole per chiedere cose come “Di dove siete?”, “Aggiungete il mio contatto”, “Qual è la vostra mail?”. Si muore effettivamente insieme, non tanto perché si muoia contemporaneamente, quanto perché si muore cercando freneticamente di conoscersi a vicenda. Gli ultimi spasmi del nostro apparire tecnologico tendono ad essere una ricerca dell’altro.

Ma consolatevi. Del resto, anche quando lo schermo diventerà tutto nero, anche di quelle presenze massimamente enigmatiche ed effimere, sarà rimasta una traccia. E allora basterà collegare il caricabatterie ed accedere alla cartella screenshoot.


Andrea Ferretti è laureato in filosofia con una tesi sul Senso Comune nel pensiero di G. B. Vico. È appassionato di calcio, folklori contemporanei e giochi di ruolo.

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