illustrazione di Chabacolors
parole di Luciano De Fiore
I
eri l’altro, fare il fotografo significava essere soprattutto un bravo fenomenologo. Saper ritrarre il proprio mondo in immagini. Effigiare la propria epoca. Come i grandi filosofi che, come Platone, è stato capace di cogliere l’anima del suo tempo nei dialoghi. O come Hegel, che nella Fenomenologia ne ha descritto lo “spirito”, cioè la cultura, il sentire universale. O Heidegger, che con Essere e tempo ha colto l’attimo in cui la modernità ha avvertito tutta la spinta della propria angoscia.
Oggi, secondo Joan Fontcuberta, esser fotografo significa invece pensare cos’è la fotografia oltre la fotografia. Assumendo che nell’era della post-fotografia scompare la tensione tra pubblico e privato, la privacy diviene un elemento reliquiale: «la telefonia mobile, complici le reti sociali, è riuscita a rompere la quarta parete che separava l’utente dalle immagini. Ora viviamo l’immagine e l’immagine ci abita», sostiene l’artista catalano nel suo lavoro editoriale più recente, La furia delle immagini.
Soffriamo un’inedita inflazione di immagini. La loro massa ha affiancato, quando non sostituito, la realtà. Lo diciamo tutti, e subito dopo tutti contribuiamo ad aumentarla. E a sfruttarne politicamente la rilevanza.
Non sempre con profitto: Google gronda degli innumerevoli, inutili selfie scattati da Hillary Clinton durante la campagna elettorale persa contro Trump.
In ogni caso, non è necessario aver letto Barthes, Deleuze o Simondon per capire quanto impattante possa essere un’immagine “giusta”, ferma o in movimento, come al cinema; il suo potere sui sentimenti, la sua capacità di sensibilizzare, traumatizzare, enfatizzare.
Proprio perché ne riconosciamo la potenza, che ne direste allora di promuovere noi per primi una certa ecologia visiva? «Non siamo tutti dei Livingstone. Torniamo, il più delle volte, in posti, magari bellissimi, dove migliaia – quando non milioni – di altre persone hanno già scattato una foto. E non esitiamo a scattare anche noi: può essere la baia di Guanabara a Rio, il balcone dove si affaccia il Papa, Fontana di Trevi o la curva degli Ultras a San Siro», nota Argenis Ibáñez, web designer messicano allievo di Fontcuberta. Chiunque ormai è in grado di realizzare scatti convincenti, tecnicamente irreprensibili. Abbiamo affinato le nostre competenze con l’uso, affrancati dai costi delle pellicole e dello sviluppo; e soprattutto sfruttiamo supporti tecnologici avanzati, come le lenti sofisticate degli iPhone, gli zoom, la profondità di campo e la nitidezza e la risoluzione che i dispositivi consentono. «E allora, oltre a fare l’ennesima foto di qualcosa o qualcuno, potremmo prestare maggiore attenzione ai mille scatti disponibili di quel medesimo soggetto su Instagram, Pinterest, Flickr, facebook, magari finendo con l’imbatterci in uno che ci risuona particolarmente. Il solo fatto di sceglierlo e condividerlo, che noi lo si modifichi o meno, ce lo avvicina e lo rende nostro». Economizziamo anche le immagini. Un po’ come quando ci portiamo la busta da casa al supermercato.
L’autorialità non va persa; piuttosto, si sposta dal contenuto tecnico dello scatto al contesto ed alla condivisione. Insomma, alla capacità di utilizzarla e farla fruire a un pubblico, a volte eterogeneo, altre volte costituito proprio dalle persone più “giuste”, in grado di apprezzare quell’immagine. Per questo la condivisione, il peer2peer, il creative commons, sono parti così rilevanti del discorso della post-fotografia.
Il selfie sfugge in parte a quest’economia della sottrazione e della valorizzazione dell’esistente. Perché, a differenza di un paesaggio o di un ritratto, l’autoscatto è ipso facto unico. Ci siamo noi. Una parte di noi. Basta un’ombra, una mano, comunque una connotazione personale della protesi mnemotecnica che stiamo utilizzando, non importa se iPhone, handycam, GoPro. È così fin dai primissimi selfie, come quello che nel 1909 si scattò un Edvard Munch seminudo.
Sappiamo tutti che il selfie è anche una bottarella di narcisismo. Il segnale: eccomi, sono stat* qui e questa mia
Morale: secondo Fontcuberta, la post-fotografia non può che essere “selfica”.
Sappiamo che il vedere non è affatto un atto ingenuo. Ogni nostro sguardo su un oggetto, una situazione è orientato da una decisione soggettiva. Il che indurrebbe ad approfondire alcuni aspetti della psicologia del selfie. Per esempio, perché così tanti amano farsi un selfie in bagno? Per lo specchio, si dirà, per la grandezza insolita della superficie riflettente. Che oltretutto duplica l’effetto: grazie alla vista – il più spirituale dei sensi – mi vedo vedermi, avrebbe detto Valéry. «Guardarsi allo specchio», annotava nei Cahiers – «non significa forse pensare alla morte? Non vi scorgiamo
Più prosaicamente, spesso le toilettes sono luoghi ben illuminati e, paradossalmente, luoghi privati. O forse ancora, volendosi mostrare nella propria nudità, si appaga la propria falsa coscienza ritraendosi lì dove il nudo è meno imbarazzante. Peraltro, la pittura lo ha fatto per secoli, ricorrendo molto spesso ai bagni ed agli specchi per ritrarre nudi. Si può pensare ad Ingres, ma anche alla Rolleiflex di Francis Bacon, per fare esempi alti.
Chi volesse, trova qui una divertente ricostruzione della psicologia femminile rispetto al selfie in bagno.
Come che sia, in tempi di così smagrite identità personali, questi succedanei offrono comunque un appiglio, una possibile gratificazione sociale al nostro self esangue, una microcelebrità. A patto che la rete dei nostri contatti non sia troppo asfittica o parca di like. Altrimenti, il tentativo si ritorce contro il povero autore del selfie, destinato a non portarsi a casa neppure uno straccio di emoji.
Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.