illustrazione di Simona Bramucci
parole di Lorenzo Di Maria
Di cosa parla Dark? Dell’eterno ritorno dell’eguale. Tra la filosofia di Nietzsche e la fisica di Einstein, Dark è una serie che riflette sulle infinite possibilità che l’acquisizione delle scoperte scientifiche ha concesso alla narrazione.
Da qualche anno a questa parte il cinema, e l’umanesimo in generale, hanno finalmente sdoganato le conquiste scientifiche del XX secolo. Avvinghiata alla fisica cartesiano-newtoniana, l’arte cinematografica sembrava non credere più nelle sue infinite possibilità rappresentative, tanto da ignorare quasi del tutto l’ormai secolare cambio di paradigma in ambito scientifico operato da Planck, Heisenberg e Einstein. Oggi sembra che finalmente ci si stia instradando lungo queste vie tortuose per emanciparsi da una tale obsolescenza: capolavori cinematografici quali Interstellar di Cristopher Nolan o Arrival di Denis Villeneuve ne sono esempi espliciti.
Si badi: tematiche quali mondi paralleli, viaggi nel tempo e così via sono sempre state ampiamente sfruttate da cinema e televisione. Ma l’emancipazione che caratterizza gli ultimi anni è da rintracciare nella forma rappresentativa ancor prima che nei contenuti più o meno bizzarri: in questo senso la fantascienza ha saputo via via legittimare la sua matrice scientifica relegando l’elemento fantastico, che precedentemente aveva un valore quasi giustificante, scagionante, a semplice elemento funzionale, diegetico e nulla più, in una metabolizzazione completa delle nuove (per modo di dire) acquisizioni scientifiche. L’arte cinematografica, impiegando ogni suo strumento, a partire dal montaggio, ha finalmente iniziato a capire come la complessità dell’esistenza e del reale sia da ricercare al di fuori di ogni linearità, di ogni logica stretta, di ogni razionale prevedibilità meccanica, nella consapevolezza, scientificamente dimostrata, che la nostra mente sia in grado, in fondo, di esplorare anche ciò che esiste al di là delle kantiane forme a priori attraverso le quali “siamo abituati” a guardare il mondo.
Ecco, espressione matura di quest’ultimo sforzo a cui è chiamata la rappresentazione è Dark, serie tedesca prodotta da Netflix, diretta da Baran bo Odar e scritta da Jantje Friese. Grandi teorizzazioni scientifiche come quella del ponte di Einstein-Rosen, meglio conosciuto come wormhole, sono esplicitamente sfruttate nella serie, così come tanto implicito quanto chiaro risulta essere il riferimento alla teoria dei campi quantistici e al fenomeno dell’entanglement, ovvero quel fenomeno dimostrato a livello subatomico per cui tra due quanti che abbiano interagito almeno una volta esiste una sorta di legame che ignora tout court lo spazio-tempo, tale che se si agisce su uno di quei quanti si assisterà nello stesso istante ad una reazione analoga anche nell’altro quanto, indipendentemente dalla sua posizione nel cosmo.
Certo, già Interstellar aveva sdoganato, appunto, le teorie sui buchi neri (e bianchi) in ambito cinematografico con la sua maestosa rappresentazione delle sliding doors sull’orizzonte degli eventi, quel punto di non-ritorno la cui attrazione gravitazionale è in grado di comprimere, fino alla cosiddetta singolarità, lo spazio e il tempo, in un istante che è compresenza di tutti gli istanti. Se però in Interstellar la scienza post-einsteiniana assume un ruolo centrale all’interno della trama, l’utilizzo che se ne fa in Dark è assolutamente strumentale: Dark ne testimonia in tal senso la metabolizzazione completa, il suo divenire a tutti gli effetti una categoria concettuale, con tutto il peso che questo comporta, sia per i personaggi alle prese con una tale sconvolgente consapevolezza, sia per chi deve inventarsi nuovi linguaggi artistici per la messa in scena, sia per noi spettatori impegnati a seguire il filo di ciò che per definizione non è (più) un filo. Del resto, annota lo Jonas adulto, “come si saranno sentiti gli uomini quando è stato detto loro che la terra è tonda?”. In una società che si ostina a credere di vivere in un mondo interamente newtoniano, Dark è in grado di mostrare, attraverso paradossi e assurdità, come la realtà sia estremamente più complessa di come la percepiamo abitualmente, stagliando le vicende di Wienden su di uno sfondo diverso, quello della fisica subatomica dei quanti idealmente rappresentata dalla centrale nucleare. Quest’ultima, spauracchio per antonomasia dell’umanità post-Chernobyl, assumerebbe un ruolo di fondamentale disvelamento della verità ultima delle cose: non c’è futuro.
Dunque, a cosa assistiamo in Dark se non alla messa in crisi di un sistema fatto di cause a cui seguono sempre gli stessi effetti? Il causalismo non è abolito, è reinserito in una rete più complessa, in cui gli effetti possono paradossalmente svolgere un ruolo decisivo nella determinazione della loro stessa causa. E non è già questo indice del loro carattere “probabile” (come vuole la scienza a partire dalla formulazione del principio di indeterminazione di Heisenberg)? Nell’assicurarsi che tutto vada com’è sempre andato, Noah si rende custode suo malgrado di una bugia (quella del meccanicismo ingenuo), “perché qualunque bugia è meglio del dolore” (il caos probabilistico, la sua consapevolezza).
Fin qui (quasi) tutto bene. Ora però tocca fare un salto. La bugia che deve essere preservata contro il dolore, che per certi versi è la scienza newtoniana, in una parola è Dio, inteso come l’origine e il fondamento di ogni cosa. Attenzione: non si sta parlando qui solo del Dio cristiano ma di quel Dio che è “stampella metafisica” che rappresenta l’ultimo barlume di certezza, l’ultimo appiglio stabile, l’ultimo lumino acceso in una realtà “dark”, avvolta dalle tenebre del dolore e dell’assenza di certezze. Del resto, il piccolo Mikkel sostiene di non credere nel Dio creatore ma Noah gli fa notare che – ragionando evoluzionisticamente, e dunque meccanicisticamente, come fa lui – Dio si ripropone in tutta la sua forza come origine della stessa origine, la causa del Big Bang, l’inizio necessario, secondo un discorso caro a tutta la teologia cristiana. Ma anche a Nietzsche, protagonista assoluto della nostra serie. “Dio” è per il filosofo tedesco il nome che diamo alla nostra esigenza di un fondamento, di un punto di riferimento stabile, di un passato e di un futuro, di un principio e di una fine, o di uno scopo. Ed è – ora sì – il cristianesimo a veicolare trionfalmente una tale concezione, quella di un Dio che è alpha ed omega, andando in tal modo a riporre il senso delle cose non nel loro accadere ma nell’escathon, nel cosiddetto “fine ultimo”, nel piano che Dio avrebbe predisposto – per citare Noah – per ogni essere umano. Il significato non è qui perché è continuamente rimandato, il nostro posto non è mai nel presente perché è sempre altrove. È questo del resto il problema che Dark si propone di affrontare: immaginare un’alternativa rispetto alla visione teleologica, lineare, del tempo. E ciò, per riprendere il dialogo tra Mikkel e Noah, non implica semplicemente superare il cristianesimo.
La celeberrima “morte di Dio” annunciata da Nietzsche ha un significato più profondo che investe non solo la religione ma tutta una certa visione del mondo che, volente o nolente, trae linfa da quel concetto di Dio e di tempo. La stessa scienza newtoniana si basa sulla considerazione che il tempo sia fatto di istanti e che ogni istante sia quantitativamente e/o qualitativamente superiore, “più grande”, o almeno diverso, rispetto al precedente, secondo dunque una linearità meccanica, la stessa che appartiene all’idea di progresso. La linearità progrediente del tempo è del resto la concezione che sottostà ad ogni morale: è in questo modo che vero e falso, giusto e ingiusto, bene e male vengono nettamente distinti e diventano rispettivamente valori e disvalori (Da dove veniamo? Dal male. Verso cosa puntiamo? Verso il bene).
Ricapitolando: Dio rappresenta la concezione lineare del tempo; da essa proviene ogni dottrina morale; la morale fonda il discernimento, dunque il libero arbitrio. La stessa libertà, l’idea che la nostra volontà possa cambiare le cose, dipende dalla possibilità di amministrare il tempo sospeso tra l’inizio e la fine, la creazione e il giudizio, l’idea di bene e la sua realizzazione compiuta. È questo il vero cruccio dello Jonas adulto. Il suo errore perenne è fin dall’inizio credere di poter cambiare le cose. Non si arrende all’evidenza dell’essere schiavi dello spazio e del tempo e di fronte alla sua “città malata” lotta con tutte le sue forze affinché qualcosa cambi. Il suo percorso è faticoso, impervio, fatto di dolore e rinuncia perché “ogni decisione in favore di qualcosa è una decisione contro qualcosa”, e lui è continuamente costretto a prendere decisioni. Il punto però non è questo ma piuttosto il credere di avere un “ruolo” nella storia. Alla fine della serie, però, scopriamo che è Jonas stesso ad aprire quel wormhole che è causa della malattia che ha colpito la sua Wienden, proprio nell’ostinato tentativo di richiuderlo. Nietzsche si alzerebbe in piedi ad applaudire.
Di cosa parla Dark? Dell’eterno ritorno dell’eguale. Già perché Dark è un nome del nichilismo. Ma andiamo per gradi. Qual è la visione del mondo, la verità, che Dark cerca di veicolare? Innanzitutto, la circolarità del tempo. Ora, quando Nietzsche parla di eterno ritorno non si riferisce certamente a wormhole e viaggi nel tempo. Quello “eguale” che “ritorna” è sinonimo dell’attimo, di quel presente che, come dice l’orologiaio, perfino Einstein ha dimenticato. Il “ritorno” indica certo un movimento, ma non come passaggio meccanico dalla causa A al successivo effetto B. È piuttosto un divenire perpetuo, “eterno”, che però resta, o meglio torna continuamente, in se stesso: non distingue più il “non più” e il “non ancora” perché tutto è già accaduto così come non poteva che accadere.
Ancora un attimo di attenzione: tale necessità, implicita nell’eterno ritorno nietzscheano, non è il destino provvidenzialistico divino ma esattamente la sua assenza. Se tutto è “come” sempre, se “tutto è adesso”, allora “non c’è futuro”, le nostre vite non hanno più uno scopo che sta “al di là”, e tutte le nostre battaglie, le nostre decisioni, l’impeto che appartiene a Jonas (e a tutti noi) di volgere le cose al bene…ecco, tutto questo è solo una bugia. Come dice Noah, “Dio non ha creato questo buco, Dio non ha un piano, non è mai esistito alcun piano, esiste solo il caos. Dolore e caos”. In altre parole, nichilismo: se Dio è morto ogni valore perde valore e grano e zizzania sono miscelati, inferno e paradiso confusi e annullati.
C’è una citazione di Shakespeare in esergo all’ottavo episodio: “Vuoto è l’inferno, tutti i diavoli sono qui!”, a testimonianza del fatto che gli uomini – per dirla con Noah – “hanno perso la loro umanità e appartengono all’oscurità”, privati della possibilità di prefiggersi obiettivi etici. Ma, continua Noah, con la pazienza libereremo l’umanità dalla sua immaturità e dal suo dolore. In che senso dunque potrebbe esistere una soluzione? In che senso è possibile recuperare quella “umanità”? Non di certo tornando indietro: si resterebbe, come Jonas, fantocci nelle mani di un tempo che non cambia, ciechi per il fatto stesso di saper guardare solo davanti a sé. L’orologiaio, al contrario di Jonas lo intuisce: “che io sia solo il tassello di un puzzle di cui non riesco a vedere l’immagine e che non posso influenzare?”. Del resto, alla domanda rivoltagli da Jonas sull’effettiva possibilità di cambiare il passato, egli risponde: “Qualunque scienziato le direbbe di no, contrasterebbe col determinismo causale. Ma fa parte della natura dell’uomo credere di poter avere un ruolo attivo negli eventi e che le sue azioni generino dei cambiamenti”. La fisica moderna non nega la possibilità che ciò che noi percepiamo come futuro possa influenzare – pur sempre causalmente – ciò che noi percepiamo come passato. Sulla porta del wormhole si legge “sic mundus creatus est”, a testimonianza del fatto che non va cercato un inizio ancestrale del tempo (che sia il Big Bang o la Creazione di Dio) e che il mondo può esser nato magari da un buco bianco e in un istante che in nulla è “altro” rispetto a questo stesso istante. Alla domanda su quando sia nato il mondo bisognerebbe rispondere “adesso”. Ciò che però la stessa scienza esclude è l’umana capacità di cambiare il passato proprio in relazione alla nostra congenita miopia che ci obbliga ad agire in maniera uni-direzionale. Se quindi facciamo passare la fisica quantistica attraverso il pensiero di Nietzsche, questo discorso si traduce nell’assoluta inefficacia del libero arbitrio, non tanto perché non possiamo cambiare il nostro passato ma proprio perché tutto è accaduto in quest’istante, e l’azione libera è illusoria nella misura in cui intende quello “accaduto” non nella prospettiva del divenire che è essenza di tutte le cose ma secondo la altrettanto illusoria distinzione tra passato e futuro.
L’orologiaio quindi conclude: “il mio posto non si trova né nel passato né nel futuro ma è qui, nel presente”. Arriviamo quindi alla soluzione. Perché Noah predica al se stesso giovane (Bartosz) pazienza? L’unica soluzione al nichilismo, al peso dell’eterno ritorno, è per Nietzsche l’oltreuomo, ovvero il coraggio di sopportare con gioia quel peso, di accettare l’assenza di un senso ultimo delle cose e l’inessenzialità della libertà, il coraggio di vivere nel presente, nell’esserci adesso. In Ecce homo Nietzsche scrive: “La mia formula per la grandezza dell’uomo è amor fati: non volere nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta l’eternità”. Non è forse questo il messaggio filosofico profondo – condivisibile o meno – che Dark vorrebbe proporre?
Lorenzo Di Maria è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Lo Sguardo e Players.