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Corpi vuoti. Ovvero, Suburbicon ai Parioli.
09/01/2018|L'ANALISI

Corpi vuoti. Ovvero, Suburbicon ai Parioli.

Corpi vuoti. Ovvero, Suburbicon ai Parioli.
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Luciano De Fiore
Il corpo, l’ultimo romanzo di Giorgio Montefoschi, non è l’ennesima storia di sesso e adulterio ma l’improvvisa e amarissima constatazione dell’assassinio del desiderio

È come passeggiare in uno dei vasti spazi ricreati da Alessandra Giovannoni sulle sue tele, ambientate a Villa Borghese o a Piazza del Popolo. I medesimi luoghi di quella Roma eternamente domenicale che Giorgio Montefoschi probabilmente detesta, per quanto mostra di amarla.
Tornano infatti in tutti i suoi racconti che di romanzesco, da anni ormai, hanno assai poco. Leggere le sue algide cronache della borghesia romana suscita un effetto straniante. Davvero crede che gli spazi dilatati e il tempo sospeso della Giovannoni, e prima ancora – in modo ancor più assoluto – di De Chirico, potrebbero esser riempiti dalla routine? Come se a colmarne il silenzio e lo spaventoso vuoto di senso che si spalanca dalle sue pagine – anche da quelle dell’ultimo “romanzo”, Il corpo (Bompiani, 2017), il diciottesimo di una produzione che annovera anche uno Strega con La casa del padre nel ‘94,  – bastassero i Campari da Ruschena o all’Hungaria, le passeggiate lento pede a Villa Glori, le trasognate ore di lettura del giornale da Rosati o al bar di viale Carso, o – peggio ancora – le parole poggiate sul nulla dei dialoghi al limite del metafisico tra Giovanni –l’anziano marito fedifrago –e Serena, la moglie lasciata per il corpo di Ilaria, splendida quarantenne con boutique a Vigna Clara.

Eppure, l’incessante racconto di niente che lo scrittore romano appassionato di tennis e della Lazio imbastisce anno dopo anno, volume dopo volume, ha un indubbio fascino. Intanto, la scrittura è pulita e ordinata come il suo autore: il periodare, nel descrivere, privilegia la toponomastica, per cui a indicare uno spazio non si spende mai un sentimento, piuttosto un cartello stradale o l’insegna di un ristorante. Le valli tirolesi frequentate da Giovanni e dal fratello minore Andrea, il depresso primo amante di Ilaria, non sono né verdi né fredde, ma ”incastrate nell’Austria”. Roma nord, tra Prati e Parioli, somiglia al cartellone di un Monopoli anni Sessanta, sul quale i personaggi – appena sbozzati – procedono a scatti, una volta che la fantasia, invero assai ordinata, dell’autore ha gettato i suoi dadi.
La collina Fleming e i Parioli di Montefoschi somigliano ad una Seaheaven di Truman Show che rischi di diventare, da un momento all’altro, la Suburbicon di George Clooney. Anzi, lo è già, ma i suoi compassati abitanti non lo sanno. Per fortuna, il diavolo si nasconde nei dettagli, anche in quei riti della quotidianità più banale che la coazione a ripetere degli avvocati di Prati compiono incessantemente; per cui, infine, anche il dettaglio mostra quell’opacità che, vivaddio, « allontana la realtà (qualsiasi cosa essa sia) nel momento stesso in cui vi allude» (Chiara Fenoglio, “Il corriere della sera”), mettendone in crisi la presunta verità.

E dove ama celarsi, di grazia, il dettaglio ammorbante? Nel corpo. In vari corpi. Il primo è quello dello sveviano protagonista che, nel corso di una passeggiata in montagna – l’ennesima sul sentiero da sempre percorso – subisce un attacco cardiaco, punto di rottura che, fin dalle prime pagine, lo costringe a misurarsi con la propria fragilità. Ed è come se, per reazione, affiorasse in lui il nemico, la forza a lungo repressa: il desiderio. Che assumerà le sembianze del corpo di Ilaria (il secondo), la ben più giovane compagna del fratello Andrea, anch’egli alle prese col proprio corpo indolente (il terzo), afflitto da un’evidente depressione. Ce ne sono ancora un paio, di corpi, nel libro: il corpo malato di Ada, l’amica di famiglia, accompagnata al morire dall’imbalsamata attenzione di tutti. E quello di Serena, moglie tradita ma ancora insidiata – tra la preparazione di orrende tisane al tiglio e l’attenzione per la nipotina appena nata – dalla sottile lama del desiderio sessuale per il marito che pensa di amare. Frustrato, ovviamente.

Quando quell’Alien che è il desiderio lo sbudella, Giovanni per un attimo si sente libero. Lascia casa, si affitta un quartierino (ben inteso, sempre nel quartiere, eh: fosse mai che si azzardi un EUR, un Trastevere), dove può svestire Ilaria, baciarla tra le gambe e possederla senza timore di esser visto dalla moglie o dal fratello. Ma senza però che il senso di colpa fletta per un solo istante. Senza che il sentimento di morte che ormai lo pervade sia tacitato per più di un momento da una sensazione di sfinimento fisico e di apprensione che ne accompagna i giorni e le ore. Svuotandoli di senso. O meglio, lasciando trasparire il non senso che li contraddistingue e appesta. Come se fuori dal Senso, borghese e ritualizzato come in una infinita cerimonia del tè alla quale può dire basta solo la morte, non ci fosse vita.

Sì, leggendolo, si ha l’impressione di una ripresa di Ada, o de Le due ragazze dagli occhi verdi. Stesse movenze al rallenty, stessi esterni (l’Alto Adige, qui San Floriano, lì la Val Aurina; qui Fregene, lì Sabaudia: comunque, il set della buona borghesia romana, contesa tra Torre Paola e San Vigilio), stessi personaggi pescati tra chi si accalca, in questi giorni festivi, da Gargani o da Castroni. Però, Il corpo non è l’ennesima storia di sesso e adulterio, e non è neppure un romanzo sul sentimento doloroso del tempo. È piuttosto l’improvvisa, amarissima costatazione non dell’eclissi, ma dell’assassinio del desiderio: «Si sta bene al Rid» mormora Giovanni. Ma lo sa che il tempo è finito.


Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.

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