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C’era una volta… in TV

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Marta Gambetta

 

Anche questa estate volge al termine, prendendo in prestito il motto della famiglia Stark di Game of Thrones “winter is coming”. A breve, le giornate regaleranno meno ore di luce e il tempo tornerà ad essere centellinato tra il lavoro e i vari impegni. Ci saranno serate fredde, magari piovose, in cui solo pochi audaci decideranno di uscire dalla propria tana per incontrare gli amici in qualche locale. Uno scenario non molto attraente, ma accattivante per coloro che sapranno coglierne qualche controparte positiva. I caldi mesi estivi appena trascorsi sono stati non solo tempo di divertimento e di spensieratezza, ma anche un periodo di pausa, una lunga attesa, tra il pubblico e i personaggi di molte tra le serie tv di maggior successo, che tempestivamente ricompariranno sugli schermi mondiali già in autunno. Come di consueto, ce ne sarà per tutti i gusti. Dalle ennesime stagioni di series come Criminal Minds e The X-Files, all’attesissimo ritorno di Will&Grace. Continueremo a seguire Meredith nei corridoi del Grey Sloan Memorial Hospital di Grey’s Anatomy, rincorreremo le fondamenta della nostra coscienza con Dolores e Maeve nella seconda stagione di Westworld, potremo indossare le divise delle forze di polizia, della scientifica ed entrare nelle istituzioni giudiziarie di mezza America o scrutare le inespresse perversioni del genere umano nella settima stagione di American Horror Story. Si potrà tornare ad abitare vecchi mondi e scoprirne di nuovi, sentendo la mancanza di tutte quelle serie che si sono concluse o non sono state rinnovate per il 2018.

Di questi viaggi immaginari ne parliamo con trasporto, con emozione: il fenomeno della fruizione delle serie tv (per lo più angloamericane) è ormai un evento socio-culturale senza precedenti, capace di conquistare spettatori di ogni sorta di età, classe sociale e provenienza nazionale. Le serie maggiormente acclamate si sono rivelate negli ultimi anni non solo fonte primaria e inesauribile di conversazione o di socializzazione, ma anche responsabili in alcuni casi di una sorta di dipendenza psico-fisica perfettamente espressa dal termine inglese binge watching. Secondo una linea evolutiva che parte dalle soap opera passando per i telefilm e giunge alla più moderna configurazione delle serie tv si è definitivamente affermato un nuovo genere capace di conquistare una propria autonomia artistica. Inevitabile allora porsi il problema concernente la fisionomia e le modalità attraverso le quali questo fenomeno possa essersi guadagnato un simile spazio, fisico ed emotivo, nella vita quotidiana della popolazione globale. Non solo, sarebbe altrettanto importane capire il ruolo che il format in questione assume o dovrebbe assumere al di fuori della dimensione del semplice svago ricreativo.

Con che cosa abbiamo a che fare?

Recentemente, interrogativi simili hanno suscitato l’interesse di studiosi provenienti dai più disparati ambiti di specializzazione. Un testo molto utile per orientarsi nell’articolato labirinto di prodotti seriali di tutti i generi è intitolato Filosofia delle serie tv. Dalla scena del crimine al trono di spade, edito da Mimesis nel 2012. Gli autori riescono infatti a rintracciare una peculiarità ontologica ed estetica del fenomeno dei serial (non più necessariamente confinati alla fruizione via cavo) che consente di tracciare una linea di demarcazione netta rispetto non solo a generi analoghi quali telefilm e soap opera, ma anche rispetto alle strutture ontologico-narrative dei romanzi e dei film del grande schermo. In questo contesto, partendo da un’analisi dell’impianto narrativo di base, le series vengono ricollocate e ridefinite – all’interno di una triade dialettica di respiro hegeliano, che comprende anche il romanzo e il film – come terzo momento o momento di sintesi degli altri due in quanto combinazione e superamento dell’orizzontalità della struttura narrativa del romanzo e della verticalità di quella dei film. Dunque, se il romanzo predilige la dimensione orizzontalmente dispiegata della “narrazione estesa e articolata in una pluralità di intrecci” e il cinema, al contrario, quella maggiormente concreta e d’impatto, svolta verticalmente, “della narrazione concisa e fortemente unitaria”, il serial moderno riesce a coniugare e a sintetizzare in un andamento policromatico queste due forme grazie al proprio svolgersi sui tre piani costitutivi dell’episodio, della stagione e della serie nel sua totalità. Questo complesso andamento è tenuto insieme in un formato (quello dell’episodio, generalmente di una durata non superiore ai 60 minuti) che si insinua senza difficoltà nel ritmo sempre più frenetico della nostra vita quotidiana e che al contempo riesce ad approssimarsi “all’estensione del tempo vissuto, con l’ambizione non solo di riprodurlo, ma anche di imporgli una struttura e un’articolazione, e di attribuirgli un senso e un valore.”

Il ruolo delle serie tv nel contemporaneo

Considerando dunque il genere seriale nella propria struttura costitutiva, esso si rivela un marchingegno sensazionale che restituisce la complessità narrativa, psicologica ed evolutiva del romanzo senza rinunciare alla ripresa della veste moderna, accattivante ed efficace, propria della pellicola. Con il suo andamento triadico arriva a proiettare lo spettatore in mondi, più o meno realistici, che costituiscono per esso nuovi orizzonti di esperienza. In continuo dialogo con la vita socio-economica del pubblico, ogni serie rappresenta o trasfigura la struttura del mondo reale in modo tale da poterne restituire una interpretazione, ma anche di agire, tramite lo spettatore, sulla realtà stessa. Basti pensare, per fare un esempio, alla sensibilità ormai generalmente diffusa rispetto alla comprensione della psicologia dei personaggi e – di riflesso – delle persone con le quali abbiamo abitualmente a che fare nella vita reale. É in questo margine d’azione o meglio di reazione che si innesta lo spunto per una riflessione volta a mettere in luce come la filosofia possa non esclusivamente dare una decodifica di questo fenomeno, ma anche trarne qualcosa di utile per le proprie argomentazioni.

Il serial al servizio della filosofia

Tralasciando tutte quelle serie come Westworld o Black Mirror che direttamente si interrogano su questioni di carattere etico-filosofico circa la natura dell’essere umano e della società, vorrei ipotizzare la possibilità di ricavare differenti spunti utili alla riflessione filosofica anche da molti altri serial che non presentano esplicitamente argomenti di questa natura. In particolare vorrei fare riferimento alle riflessioni portate avanti da alcuni tra i filosofi che hanno esplorato il campo di quella che viene definita come filosofia del linguaggio ordinario, per arrivare a suggerire la possibilità di attribuire alle serie tv un ruolo analogo a quello riconosciuto da questi pensatori ad alcuni classici della letteratura. Prendiamo ad esempio il lavoro della statunitense Cora Diamond che si fonda su una attenta rilettura non solo di Wittgenstein, ma anche di Austin, Cavell e Iris Murdoch. Per Diamond la filosofia ha primariamente a che fare con il linguaggio e con il suo significato. Questo significato, in pieno accordo con la tradizione filosofica in cui si inserisce, deve essere trovato all’interno del contesto in cui determinate parole – in particolare quelle rilevanti per la filosofia – vengono impiegate. Il linguaggio è in verità intrecciato alla realtà in ciò che viene definito come uso: il linguaggio può significare qualcosa solo all’interno e dipendentemente dalla situazione in cui viene impiegato. Ma questa realtà è costituita a ben vedere dall’interazione tra le differenti soggettività, da determinate pratiche condivise e da forme di vita dipendentemente dalle quali (tramite una particolare forma di assenso tra gli individui stessi) il linguaggio può avere un significato. La complessità aumenta con lo scoprire che le stesse pratiche condivise, alla luce delle quali potremmo correttamente interpretare e comprendere quello che diciamo, sono in realtà un complesso di relazioni inter-soggettive continuamente cangianti e dalle infinite sfumature. Sarà quindi richiesta al filosofo una particolare attenzione, un particolare sforzo immaginativo, per cogliere e interpretare il più correttamente possibile ogni minima striatura dello sfondo umano dal quale solamente può trarre significato il nostro linguaggio. Per chiudere il cerchio, secondo l’interpretazione di Murdoch portata avanti da Diamond, lo stesso atto del prestare attenzione e dell’osservare, del cercare di ampliare quanto più possibile i nostri concetti e il significato delle parole che pronunciamo alla luce del contesto in cui esse prendono vita, può essere considerato non solo fondamentale in ambito etico, ma addirittura un atto morale in quanto tale: «In filosofia morale, abbiamo soprattutto bisogno di apprezzare i vari modi in cui di fatto differiamo gli uni dagli altri in virtù dei concetti con cui viviamo.» E’ evidente, poste queste basi, come i grandi scrittori (coloro i quali tramite un attento studio delle parole e delle espressioni si sono rivelati abili nell’osservare e soprattutto nel restituire a livello immaginativo la complessità delle interazioni umane) possano essere fonte inesauribile di studio per quei filosofi che come Diamond cercano di comprendere il linguaggio (e i concetti che vengono espressi tramite di esso) in virtù della complicata relazione che quest’ultimo intrattiene con una realtà ancora più difficoltosa da esaminare ed esprimere. Il punto dunque concerne la possibilità di valutare alcune serie tv come una riconfigurazione moderna del ruolo assunto da queste forme narrative, non tanto da un punto di vista prettamente linguistico, quanto in riferimento alla connaturata capacità di poter far esperire immaginativamente, ad uno spettatore attivo, infinite configurazioni di pratiche inter-soggettive, delle più disparate esperienze di altri possibili individui, tramite le quali condurre una fertile e costante rielaborazione concettuale. Una simile interpretazione non vuole adombrare l’importanza della letteratura, ma sfruttare le potenzialità di un format che attualmente è di fatto in grado di raggiungere un vastissimo numero di menti e di rivelare al contempo l’importanza e il valore insiti nel linguaggio audiovisivo performato dalla sceneggiatura e dal montaggio. Tramite la scrittura di una valida sceneggiatura che riesca a sfruttare la strutta di base del format (che si articola appunto in episodio, stagione e serie) e i suoi differenti mezzi espressivi (ad esempio il montaggio, le musiche, la luce, etc.) anche una serie di genere fantasy come Once Upon A Time (C’era una volta) potrebbe venire incontro alle esigenze di chiarificazione concettuale necessarie per un attento filosofare. La serie tv in questione, trasmessa dalla ABC a partire dal 2011, si ispira al mondo fantastico delle fiabe e delle leggende popolari trasportando i personaggi di questi racconti in una ragnatela narratologica alquanto complessa che ha come sfondo la realtà contemporanea (2010). Fin dalla prima stagione l’impianto narrativo si fonda su una radicale opposizione (in linea con la netta separazione tra questi due valori antagonisti tipica della fiabe) tra bene e male che viene emblematicamente, ma non esclusivamente, incarnata da due personaggi tra i più conosciuti e popolari: Biancaneve (Snow White / Mary Margaret Blanchard) e la Regina Cattiva (Evil Queen / Regina Mills).

Nel corso della prima stagione e di quelle immediatamente successive grazie ai molti espedienti narrativi pensati dalla sceneggiatura verrà raccontato non solo il presente in cui il corpo principale dell’azione si svolge, ma saranno parallelamente ripercorse le storie di tutti i personaggi della serie. In questo contesto le azioni di Biancaneve e della Regina Cattiva vengono letteralmente vivificate nel loro senso profondo dalla narrazione delle loro esperienze passate. É così che lo spettatore arriva a comprendere le ragioni e le incomprensioni, come anche i sentimenti e le frustrazioni, da cui le azioni dei due personaggi sono mosse. Il risultato è un progressivo sbiadirsi della linea che inizialmente separava nettamente bene e male, giusto e sbagliato: lo spettatore non può che giungere a provare sentimenti contrastanti rispetto a entrambe le figure. Egli è infatti indotto a rimodellare i propri concetti dipendentemente dalle situazioni e dai contesti che vengono man mano presentati ed è anzi costretto a riformulare le proprie convinzioni di puntata in puntata. Con l’uscita della settima stagione, disponibile a partire da ottobre, viaggeremo nuovamente alla volta dell’immaginario di Once Upon A Time come di tutti gli altri infiniti universi pensati per il nostro intrattenimento. Con uno sguardo attento però, nel confortante tepore della nostra casa, potremo distrarci dalla vita quotidiana, vagare e fantasticare con la mente per spogliarci dei panni ordinari, scegliendo di volta in volta nuove sfumature di colore per ridisegnare la nostra personale visione del mondo e dare nuovi significati alla nostra routine.


Marta Gambetta è laureata in filosofia con una una tesi sul pensiero morale di Cora Diamond. Nel 2017 pubblica con la casa editrice L’Erudita una raccolta di poesie dal titolo L’alba al tramonto.

Matteo:
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