illustrazione di Simona Bramucci
parole di Andrea Ferretti
Ogni GDR si fonda su una capacità essenziale del nostro animo, il facciamo finta che. Ma allora cosa vuol dire interpretare un personaggio in un GDR? E quali sono le modalità e gli effetti di questa interpretazione?
Ricordate la scena iniziale di Stranger Things? Quattro ragazzini seduti ad un tavolo ingombro di scartoffie e dadi, con al centro un foglio quadrettato su cui sono disposti dei pupazzetti. Uno di loro, Mike, ha davanti a sé una sorta di paravento di cartone e sembra condurre una strana narrazione. Egli annuncia, pieno di enfasi, che “qualcosa sta entrando nella stanza”. Di chi è l’ombra che si sta stagliando minacciosa sul muro? Chi produce il suono inquietante che i ragazzi ascoltano? È il terribile Demogorgone! La sua miniatura viene disposta sul quadrettato e, mentre il demone avanza minaccioso, Dustin, Lucas e Will hanno pochi secondi per decidere il proprio destino: affrontarlo lanciando una palla di fuoco o fuggire usando incantesimi protettivi? L’ultima parola spetta al mago, Will, che alla fine urla “Palla di fuoco” e lancia un dado a 20 facce: l’unica speranza è che il risultato sia almeno un 13, altrimenti l’incantesimo fallirà e il Demogorgone si avventerà su di loro…
Questa è una delle possibili descrizioni di ciò che accade durante un di Gioco di Ruolo (GDR). I quattro protagonisti di Stranger Things stanno infatti giocando a Dungeons&Dragons, il primo e più famoso GDR ideato da Gary Gigax e Dave Arneson nel 1974. La chiave per capire cosa stia accadendo in quella la stanza è la distinzione tra due stanze: quella in cui i ragazzi stanno materialmente giocando il gioco (il sottoscala, con le schede, i manuali, i ragazzi in carne ed ossa e il tavolo dove viene lanciato il dado) e quella fantastica in cui sta avvenendo il gioco (il covo del Demogorgone, dove ci sono il mostro che avanza e i personaggi che lanciano effettivamente la palla di fuoco). Nella prima stanza c’è tutto quello che serve perché possa diventare metafora della seconda. Ogni cosa ed ogni azione dei ragazzi è infatti un’azione reale che, ad uno sguardo addestrato, rimanda a qualcosa che sta accadendo solo fantasticamente. Mentre Mike, il master o narratore, determinerà il funzionamento di tutto ciò che circonda i personaggi, dalle scelte di Dustin, Lucas e Will, i giocatori, dipenderanno le azioni dei rispettivi personaggi. Dall’insieme delle azioni e delle reazioni di master e giocatori emergerà il racconto comune, anche detto avventura o campagna.
Al giorno d’oggi non esiste più soltanto Dungeons&Dragons, ma, parallelamente al crearsi e al diffondersi di una cultura degli appassionati, è proliferata una grande massa di GDR differenti. Un GDR è composto infatti da tre elementi fondamentali: a) il sistema di regole (determina come devono essere gestite determinate azioni dei personaggi, in particolar modo i combattimenti e l’uso delle loro abilità), b) l’ambientazione (lo spazio, il tempo e le società fantastiche di cui i personaggi fanno parte), c) l’interpretazione (il dover impersonare un personaggio). Lo scopo di regole e ambientazione è quello di fornire l’insieme delle condizioni condivise da giocatori e master affinché sia possibile l’interpretazione. Siccome queste condizioni possono essere soddisfatte in diversi modi, regole ed ambientazione costituiscono la parte variabile; sono ciò che rende diversi i vari GDR. Non sono elementi neutrali, ma indirizzano e condizionano, in modo più o meno apprezzabile, quali aspetti dei loro personaggi i giocatori saranno portati ad evidenziare all’interno del gioco. Tuttavia, come una buona costituzione non implica sempre una buona prassi politica, così un buon sistema di regole ed una bella ambientazione non assicurano la buona riuscita di un GDR. Si tratta di condizioni necessarie, ma non sufficienti.
Ciò su cui vorrei concentrami è dunque il nucleo narrativo-interpretativo dei GDR. Per quanti ne possano essere inventati, tutti consisteranno nell’assumere un ruolo all’interno di una dimensione immaginativa. Per quanto possano diventare normativamente complessi (o contorti), ogni GDR, finché è un GDR, si fonderà su una capacità primaria ed essenziale del nostro animo, il “facciamo finta che…”. Se è così, allora la domanda da porre per cercare di comprendere difetti e possibilità di queste pratiche ludiche è: “che cosa vuol dire interpretare un personaggio in un GDR? Secondo quali modalità e con quali effetti sul gioco ciò può avvenire?”
Il GDR come Giocattolo-Merce
I GDR, essendo un fenomeno del nostro mondo, sono innanzitutto una merce. Lo sono in un duplice senso: a) materialmente, come collane di libri, manuali di regole e ambientazioni, dadi, miniature, gadget, ecc…, b) come immaginario simbolico fantasy, fantascientifico, post-apocalittico, ecc… sfruttato in ogni modo dall’industria editoriale, televisiva e cinematografica, nonché altamente formalizzato in stereotipi facilmente riconoscibili, tanto a livello di caratteri e personaggi, tanto a livello di situazioni ed intrecci.
Quando il GDR viene giocato esso si impone, almeno in qualche misura, come merce, giocattolo, oggetto di consumo. L’esperienza stessa del gioco assume il carattere della merce, la quale porta con sé una promessa, quella di un godimento illimitato, illimitatamente fruibile. L’imperativo del “sistema-gioco” allora sembrerebbe dire: affidati alla merce ed essa ti darà piacere. Nel rapporto tra il giocatore ed il suo personaggio questo aspetto si traduce in una disponibilità illimitata del secondo per il primo. Il personaggio è qui una maschera sottile, quasi impalpabile, che si schiaccia su quelle sono le banali e quotidiane ambizioni e frustrazioni del giocatore. Il ruolo da assumere nel gioco e quelli che si assumono nella realtà si confondono, facendo quasi vacillare il costitutivo “facciamo finta che io sia…”.
La tanto temuta confusione tra fantasia e realtà non avviene dunque perché il giocatore vive troppo intensamente il gioco, ma al contrario, avviene perché il giocatore, non guadagnando attivamente la distinzione tra la propria realtà e il proprio giocare, non ottiene il gioco come esperienza indipendente dalla quotidianità e veramente ri-creativa. Non si tratta affatto di una semplice fuga dalla realtà, ovvero di una fuga dal mio io reale. Il giocare si riduce invece ad una semplice proiezione metaforica di sé: il personaggio è il MIO perché fa ciò che IO voglio fare e dunque ciò che fa è insindacabile, semplicemente soggettivo. Questa situazione di povertà dell’immaginazione si verifica costantemente, tanto che in genere si usa dire che il personaggio è l’”alter-ego” del giocatore nel gioco. Un altro-io nel senso di un ennesimo me stesso, soltanto che in un castello incantato invece che piegato sulla scrivania di un ufficio.
In questa disponibilità come potere illimitato del giocatore sul personaggio, il primo perde ogni forma di autonomia e creatività, in quanto rimane irriflessamente vincolato a ciò che di sé stesso vive quotidianamente. Paradossalmente il massimo potere diventa la mancanza assoluta di potere, perché sarà lo stesso immaginario a scegliere le maschere adatte per il giocatore. L’immaginario funziona qui come semplice codice-meccanismo che fornisce al giocatore ciò che gli serve per soddisfarsi nel gioco. Ad esigenza, propone il suo ventaglio di soluzioni metaforiche. Se il proprio sé quotidiano è normalmente limitato nella sua possibilità di godere di ciò di cui vuole godere, il GDR semplicemente rimuove il limite tramite la mediazione del personaggio e del mondo fantastico in cui “tutto può accadere”. Il personaggio sarà così una versione illimitata di sé stessi e uno sfogo sregolato di ciò che normalmente è (e deve essere) limitato. Si viene così subito giocati dal giocattolo e dal suo essere una semplice merce di finzione, ovvero una finzione volta al soddisfacimento di un bisogno di illimitatezza, una finzione al semplice servizio della quotidianità.
Siccome la chiave di questo rapporto giocatore-personaggio è nella connessione che si istituisce tra bisogno reale di godimento illimitato e soddisfazione fantastica/metaforica, non può essere semplicemente evitato tramite un’ulteriore regola del tipo: “i personaggi vengono assegnati a caso o scelti dal master”. Anche se il tipo del personaggio è già determinato, esso manterrà sempre una vaghezza ed una disponibilità tali da potersi imporre come proiezione del giocatore. Egli potrà sempre impossessarsene/farsene impossessare e, nuovamente, quel tipo, quel pezzetto di immaginario che gli è stato affidato, gli darà, bello e pronto, quanto gli è necessario per entrare (letteralmente) nel gioco. La differenza non sta tanto nel fatto che il giocatore debba interpretare questo o quest’altro tipo di personaggio (il ladro codardo e fanfarone o il solitario e taciturno ramingo ecc..), quanto nel modo in cui si rapporta al tipo, nel modo in cui lo concretizza nel gioco.
L’illimitatezza che contraddistingue questo rapporto giocatore-personaggio implica, insieme all’assenza di autonomia, anche l’assenza di libertà. È infatti ben difficile definire uno spazio per la libertà in assenza di limiti-norma in cui possa consistere la verità di un agire effettivo. Ovviamente rimangono in vigore le regole del sistema di gioco, ma queste sono soltanto la forma, ciò che consente di articolare concretamente lo sfogo di me tramite il MIO personaggio. Con la libertà viene meno anche la socialità, l’effettiva cooperatività nel gioco. Se il godimento deve essere illimitato, ciò varrà in linea di principio per tutti i partecipanti al gioco. È vero che si continuerà ad agire insieme e a risolvere le sfide poste dal master, ma questo avverrà soltanto in funzione del godimento dei singoli. Ognuno si prenderà dal tavolo tutto quello che riuscirà a prendersi e, più che guardare alla bellezza e all’armonia del racconto comune, punterà ai traguardi del proprio alter-ego. L’illimitatezza dunque non è sinonimo di un godimento effettivamente illimitato (gli altri giocatori e il sistema di regole continuano ad esserci e a limitarsi a vicenda perché continui ad esserci il giocattolo), ma della tendenza, sempre ribadita e insieme rimandata, ad esso (e questo ribadire e rimandare è il motivo per cui si continua a godere e a giocare).
Il GDR come Gioco-Emancipazione
L’esperienza del GDR come gioco autentico si può raggiungere tramite il sentimento del limite, ovvero della differenza tra quotidianità e gioco, giocatore e personaggio, nonché della norma dell’interpretazione. La norma dell’interpretazione è una sorta di meta-regola, ovvero è la regola che precede il sistema di regole del singolo GDR e concretizza fino in fondo il “facciamo finta che…” istitutivo del gioco. È la regola che consente la libertà, la socialità e la verità del gioco.
Tramite questa resistenza del personaggio, l’esperienza ludica si intensifica e guadagna la propria distinzione dalla quotidianità. Da una parte c’è il “come al giocatore piacerebbe reagire” ad una determinata situazione proposta dal gioco, dall’altra il “come reagirebbe il personaggio”: nello scarto tra le due opzioni vi è lo spazio per la libertà creatrice del giocatore. Egli infatti, presupponendo l’idea fantastica (o immagine) del personaggio, deve sforzarsi di inferire i comportamenti di un individuo che è in qualche modo lui stesso (viene da lui ed è nella sua piena disponibilità) eppure è diverso da lui, altro da lui. Ogni volta che la narrazione del master o le scelte degli altri giocatori lo chiamano all’azione, il giocatore deve determinare il comportamento del suo personaggio svolgendo un ragionamento non deduttivo, non determinabile univocamente, eppure per lui obbligante e sempre tale da poter richiedere ed ottenere l’approvazione degli altri giocatori. I GDR sono giochi strani: banalizzando al massimo, se il ladro del gruppo è un codardo e vi pianta in asso proprio quando avrebbe potuto danneggiare quel maledetto troll, gli altri giocatori possono riconoscere l’adeguatezza della mossa e esserne soddisfatti. Certo, a loro volta i rispettivi personaggi potrebbero non essere particolarmente sereni nel ricontrare il loro “compagno” illeso e sorridente…
Insomma, la meta-regola da cui dipende la buona riuscita di un GDR, è una strana regola. La norma dell’interpretazione non è infatti una semplice regola esplicita, come le regole del sistema di gioco, da cui si possono sempre trarre delle applicazioni convenzionali ed univoche. Si tratta invece di una regola non formulata e non formulabile fino in fondo, da cui dipendono tanto la molteplicità e la soggettività delle applicazioni possibili, tanto la resistente oggettività e condivisibilità di ognuna di esse. Quando il giocatore immagina e sceglie l’applicazione più coerente o adeguata dell’idea-immagine del personaggio alla situazione particolare posta dal gioco, è autonomo e libero proprio perché ricerca la verità dell’individualità fantastica del personaggio. L’essere MIO del personaggio qui significa proprio l’essere chiamati a porre (partendo dall’immaginario) e a rispettare questa strana meta-regola che, in quanto regola-limite, pone una possibilità di verità e intersoggettività.
Da ciò segue che il godimento del giocatore non consista più tanto in ciò che il suo personaggio ottiene nel gioco, ma dall’armonia del racconto collettivo che, con le sue inferenze, contribuisce a creare. Il personaggio non media ciò che il giocatore vuole, ma semplicemente gli permette di partecipare insieme agli altri, allo svolgimento ed alla bellezza della storia. In questo senso il gioco diventa effettivamente sociale e condiviso: la finzione non soddisfa alcun bisogno particolare del giocatore, ma, al contrario lo impegna in un’attività libera e riflessiva, nella quale possono effettivamente convergere e riunirsi i contributi di tutti i partecipanti.
Soltanto tramite la conquista del limite tra giocatore-personaggio e tra quotidianità-gioco è possibile vedere la verità esperibile nel GDR. Se in un certo qual senso tutti noi giochiamo irriflessamente dei ruoli nell’ambito della vita quotidiana e che questa pluralità di ruoli compone ciò che possiamo chiamare la nostra identità, allora questa complessità può essere illuminata e portata alla coscienza tramite l’esperienza esplicita della differenza. Attraverso la mediazione del personaggio come alterità sentita dentro di sé e dunque agita nella fantasia condivisa del gioco, si può intravedere la molteplicità, frammentarietà ed anche l’incoerenza delle componenti che contribuiscono al nostro comportamento quotidiano. Si può imparare la messa in discussione delle proprie rigidità, affinare la propria sensibilità nel relazionarsi a sé stessi e dunque agli altri.
Come ricordano Ghilardi e Salerno nel loro “Giochi di Ruolo. Estetica e immaginario di uno scenario giovanile” (a cui si devono diversi e importanti spunti di riflessione), l’etimologia di illusione è legata al ludus, al gioco. Il gioco crea l’illusione, l’immersione in qualcosa di regolato diversamente dalla quotidianità. Tuttavia proprio nel momento in cui questo altrove viene posto, esso non allontana lo sguardo dalla realtà, rendendolo invece più acuto. Nella differenza (nell’illusione) che istituisce, dona infatti la possibilità (il tempo e lo spazio) per l’apparizione distinta di ciò che normalmente non deve apparire o appare soltanto di striscio, in controluce. Da una parte vi è lo sfogo più o meno sfrenato di desideri e proiezioni del sé ordinario, dall’altra, al contrario, la loro relativizzazione all’interno della proliferazione di identità possibili, altre da sé eppure non aliene da sé. Si può forse dire che nell’incrocio tra queste due apparizioni, nel loro inevitabile mescolarsi e richiamarsi a vicenda, stia la pratica concreta dei GDR.
Andrea Ferretti è laureato in filosofia con una tesi sul Senso Comune nel pensiero di G. B. Vico. È appassionato di calcio, folklori contemporanei e giochi di ruolo.