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Blade Runner 2049. Dal Barocco-Immaginario alla Rovina

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Matteo Sarlo
Denis Villeneuve in Blade Runner 2049 decide di ricalcare la scenografia del capolavoro di Ridley Scott per la città e riconfigurare il mondo di fuori. Dal pieno, dall’accumulo, dall’eccesso, si passa al post-industriale rottamato. Dal Barocco-immaginario alla Rovina.

Scriveva Walter Benjamin una cosa bellissima. Ed è questa: non solo ogni epoca sogna la seguente, ma ogni epoca riconfigura il proprio passato. Se ne riappropria e lo ridisegna. Ecco, questa cosa, che solo Benjamin poteva trovare l’acutezza per dirla così lucidamente, è di una profondità spaventosa. Non è tanto la storia di far quadrare tutti quei film pieni di paradossi temporali, per cui prendiamo adesso per buono Ritorno al futuro: la trama che si avviluppa, le foto che sbiadiscono, Martin, la macchina che finisce la benzina, la foto che cambia. No, è qualcosa di molto vicino al pensiero escatologico di Paolo di Tarso, quando in prima Corinzi parla di un tempo che si è contratto, vale a dire il tempo messianico che immediatamente si proietta su quello trascorso, per revocarlo attraverso lo strumentario linguistico-ontologico dell’hos me (come non). Si tratta di un tempo che accade e che mentre accade, perché accade, retroattivamente agisce sul suo generatore. Che poi è il meccanismo che sorregge Pastorale Americana, di Roth dove le colpe dei figli (Maggie) ricadono sui padri (Levov). Ma un pensiero di questo tipo è anche quello di Denis Villeneuve, per quanto ha mostrato nel suo penultimo film: Arrival.

Villeneuve è un astro della cinematografia contemporanea. É canadese, ha gli occhi stretti e tutto un fare da bravo ragazzo. Volergli male, non puoi proprio. Al mondo si presenta con un dramma, La donna che canta, che gli vale una candidatura agli oscar come miglior film straniero, poi fa un film un po’ poliziesco un po’ thriller con Hugh Jackman, Prisoners, che rasenta la perfezione, poi mette in scena Cecità di Saramago, Enemy, poi ancora un poliziesco ma questa volta con FBI e narcotrafficanti, Sicario, e poi Arrival, (per il quale è candidato a Miglior Regia per gli Oscar 2017), un film di fantascienza dove cala le carte: Villeneuve è uno che non fa film, fa cinema. Per dire, è uno che fa un film sugli alieni e allo stesso tempo ti dice che sta facendo un film su che cosa vuol dire fare film. Solo per dirne una. Nel film gli alieni permettono a Amy Adams di entrare nella loro astronave per tentare di comunicare. Loro però tanno dietro una lastra di vetro, lei davanti. Per una serie di ragioni, a un certo punto lei va al di là della lastra ed ecco che loro gli concedono quel che erano venuti a concedergli: la capacità di vedere il tempo interrompendo la percezione lineare: passato insieme al presente insieme al futuro. É chiaro: gli alieni sono il cinema. Amy Adams sta in sala. Una volta che passa dall’altra parte, cioè una volta che entra nello schermo, gli alieni/cinema le fanno dono della loro caratteristica, vedere la vita in maniera non lineare, cioè le fanno dono del montaggio, notoriamente quel che distingue il cinema da ogni altra arte.

Eccolo il pedigree. A questo punto la proposta è una sola, Villeneuve deve girare il sequel di Blade Runner.
Cosa ha reso Blade Runner il princeps di ogni immaginario di futuro? Quel che strutturalmente rende Blade Runner Blade Runner è la costruzione di un mondo. E in cinema la costruzione di un mondo, in termini strettamente letterali, è la scenografia. Ecco dove si gioca la partita con il sequel di Villeneuve: la ri-cosruzione della realtà. Per farlo Villeneuve ha collaborato con Dennis Gassner (Oscar migliore scenografia per Bugsy 1992). Per Gassner la creazione del mondo di Blade Runner doveva basarsi su un principio: monocromatismo. Per Villeneavue poi era chiara un’altra cosa, fin da subito: voler costruire tutto da zero. Lavorare il meno possibile col telo verde e, d’accordo con la produzione, costruire oggetti fisici. La Pegeuot di K (Ryan Gosling) esiste davvero. Magari non vola come nel film, ma c’è. Il risultato è esattamente quel che Gassner e Villeneuve avevano pensato: fedeltà e riconfigurazione. La costruzione della città è molto simile: ruderi fatiscenti e sporchi, bancarelle putrescenti, macchine a decollo verticali, fotografia che lavora spesso al buio.

Luci al neon, pubblicità, ologrammi. C’è però una profonda differenza tra il Blade Runner del 1982 e quello del 2017. Una differenza strutturale. Non è sulla parte fedeltà, ma su quella riconfigurazione.
Cosa ha reso Blade Runner il princeps di ogni immaginario di futuro? L’immaginazione di un futuro che è da subito rivolto al passato. Come? Affiancando alle geometrie esterne dei palazzi (la sede della Tyrell Corporation è una vera e propria piramide atzteca) interni in stile Art-Nauveau. L’Art-Nouveau è un chiaro richiamo del Barocco. Il Barocco, va da sé, non filologicamente inquadrato ma il Barocco come figura dell’eccesso (di popolazione, di pubblicità, di luci.). Non esattamente la corrente artistica ma quel che potremmo chiamare Barocco-immaginario.

La ripresa della tradizione barocca è legata in letteratura al nome dello scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges, che in Finzioni propone i seguenti temi, fissando quello che potremmo denominare il “programma” del Barocco-Immaginario: 1. ricorsività e indistinguibilità tra realtà, immaginazione e sogno, 2. un mondo sovraccarico, un ipervedere che si trova di fronte ad un presente pieno.

1. Le rovine circolari: «Lo sognò attivo, caldo, segreto, della grandezza d’un pugno serrato, color granata nella penombra di un corpo umano ancora senza volto né sesso; con minuzioso amore lo sognò, durante quattordici notti…….era l’Adamo di sogno che le notti del mago aveva fabbricato». Inutile dire quanto questo tocchi il tema dell’innesto di ricordi impiantanti nella mente dei replicanti. Siamo di fronte, in altri termini, allo sgretolamento del piano della realtà come punto di partenza non questionabile. Ne segue la domanda “ma allora cosa è reale?“. È Villeneuve stesso a spiegare quanto la sua intenzione è proprio quella di limitare il confine tra realtà “vera” e realtà onirica. Qui analizza in questo senso l’ingresso di K nella città vecchia.

2. Funes o della memoria: «Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata. Decise di ridurre il numero dei suoi giorni passati a un settantamila ricordi, da contrassegnare con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: quella della interminabiltà del compito; quella della sua inutilità. Pensò che all’ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua fantasia». Funes potrebbe essere tranquillamente l’architetto della città di Blade Runner.

È chiaro, vi è in Borges una netta distinzione tra il reale e l’immaginario; lo scrittore argentino sa di trovarsi in un terreno di finzioni e partecipa all’invenzione di un gioco letterario. É ancora lontana l’intrusione dell’immaginario nel reale, per dirla con Zizek. Ma i punti sono scolpiti. Il Barocco-immaginario si impianta sull’accumulo come figura dell’eccesso e sulla indistinguibilità di sogno-reatà-immaginazione.
Per essere allora icastici, mentre Odissea 2001 nello spazio (1968) immagina il futuro come davvero futuro e al pieno di Blade Runner contrappone il vuoto, lo spazio dove è possibile l’immaginazione dell’utopico (il Monolite), nel capolavoro di Scott il futuro è già da sempre la nostra proiezione del passato, riuscendo a prefigurare l’epoca del desiderio (come del suo depotenziarsi nel godimento) e il rapporto con la macchina, l’alieno dell’uomo, cioè il replicante.
Tutto è però riscattato nel monologo finale di Roy. Quello di «ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…». Il finale vuol dire, ed è questo il twist di Scott: la macchina si fa carico dell’immaginazione dell’uomo. La frase vuol dire: uccidendo me, state facendo scomparire la vostra possibilità di veder questo mondo.
E questa è l’operazione cinematografica. Questa è l’operazione di riconfigurazione. Questo vuol dire fare cinema.

Cosa accade invece nella versione di Villeneuve? Cioè, cosa accade al futuro 35 anni dopo, quando gli tocca ripensare il futuro? A parte la notizia positiva, sottolineata da Anthony Lane sul New Yorker, che ancora ascolteremo Sinatra, accade che l’ipervisione, il pieno, l’eccesso, in parte redento dall’immaginazione della macchina andersianamente perfettibile, viene spinto tanto in là da tracimare in rovina. Quel che ne esce fuori è un mondo inabitabile, che oscilla tra l’asetticità degli interni del palazzo di Neander Wallace (Jared Leto), dove non c’è più nessun gusto, pur se vagamente kitsch come quello della vecchia Tyrell Corporation, e l’inabitabilità del fuori. All’Art-Nouveau subentra la privazione del minimal e al pieno subentra la rovina. Ad essere conservata la violenza di tutto ciò. L’elemento cioè abbrutente.

Quel che ne esce fuori è davvero, per utilizzare una categoria che è recentemente transitata dalla geologia alle scienze umane, il futuro pensato nell’epoca dell’antropocene.
Non ne possiamo parlare per non rovinare il film a nessuno, ma anche nel film di Villeneuve si è tentato un riscatto finale, una sorta di principio-speranza, l’individuazione di un’apertura che dia modo ancora di desiderare. Questo è tuttavia rintracciato, ed è sintomatico, non nell’epica di Roy ma nella forza delle emozioni quotidiane. Come a dire, nell’epoca della rovina come simbolo del post-umano occorre guardare non fuori, ai bastioni di Orione, ma dentro di sé, a quel che resta incapsulato nella stanza dei propri ricordi.


Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passagi sul vuoto (Galaad), un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia. È in pubblicazione Pro und Contra. Anders e Kafka (Asterios).

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