illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Lorenzo Di Maria
EPISODIO 4. HANG THE DJ
A metà strada tra i riuscitissimi 15 Millions Merits e San Junipero, il quarto episodio di questa quarta stagione è un piccolo capolavoro: ben congegnato, ben girato e sicuramente il più azzeccato, il più “in linea” con il brand Black Mirror. A primo acchito, l’impressione che si ha è quella di una puntata romantica, una love story che finisce bene. E sicuramente questo elemento è presente. Ma subito dopo l’ultimo fotogramma, mentre ancora Panic degli Smiths accompagna i titoli di coda, il sorriso soddisfatto lascia il posto ad una corrugata espressione di dissenso: c’è qualcosa che non va. Dietro l’apparente happy ending – quando mai! – si cela uno dei finali più claustrofobici mai ideati da Charlie Brooker. E se in Crocodile, come abbiamo visto, la claustrofobia assume i caratteri di un’oppressione psicologica “applicata” dall’esterno in Hang the DJ essa è coessenziale alla realtà stessa. L’universo delle relazioni è tutto immerso in un liquido amniotico tecnologico, e la naturalezza dell’affidarsi alla tecnologia è la stessa naturalezza di quello che Sloterdijk (e Thomas Macho prima di lui) chiama n-oggetto, condizione pre-soggettiva (e pre-oggetiva) dell’individuo, tipica prima di tutto del rapporto madre-feto. In altri termini, non se ne esce. E nel finale dell’episodio quella che ci appare come una risoluzione felice dei molteplici intrecci o conflitti “onirico-tecnologici” rivela invece un ritorno alla realtà che resta fermo, un risveglio che resta dormiente. Insomma, per Brooker alla fine di Inception la trottola non cade.
Ma andiamo con ordine. L’amore è senz’altro uno dei sentimenti più spontanei (in senso stretto) con cui abbiamo quasi quotidianamente a che fare, sia in quanto uomini che in quanto animali. Certamente però, a differenza del resto del mondo animale, l’uomo ha reso la semplice necessità riproduttiva un “problema”: l’amore non è più solo una questione biologica, ci sono criteri di scelta.
Ora, in realtà anche il mondo animale è costellato di questo tipo di criteri: si pensi alle danze erotiche degli uccelli. Con tutta evidenza, lì la femmina sceglie il maschio sempre in ragione di esigenze fisiologiche ed evoluzionistiche. Criteri che il genere umano ha dimenticato, e se pure continuano ad agire lo fanno in un senso statistico, “sui grandi numeri”, o perlomeno inconscio, mentre, nella vita affettiva di ognuno, essi sono stati sostituiti, “sovradeterminati”, da criteri di ordine estetico, psicologico e culturale. Questo ha generato uno scollamento, rispetto all’immediatezza (non senza sforzo) biologica, dell’appagamento del bisogno sessuale, dando vita alle dinamiche, prettamente umane del desiderio. Desiderio che va coltivato con fatica, nel tempo, e raramente esso viene completamente appagato, finendo più spesso per esser frustrato. Insomma, in un’epoca come la nostra che tende a colmare ogni vuoto e che ci viene in aiuto in ogni minimo sforzo, nell’epoca del “tutto e subito”, lo spazio-tempo del desiderio viene ad essere un’imperfezione da sistemare. È così che esso è stato progressivamente rimpiazzato dall’istantaneità del godimento. Come? Affidando alle tecnologie, e quindi ad un algoritmo matematico – sfruttando così la potenza metaforico-predittiva di Black Mirror – l’individuazione del luogo dell’appagamento “totale” del desiderio, quel luogo – mito o realtà che sia – che viene chiamato “anima gemella” e la cui individuazione prevede solitamente una ricerca potenzialmente infinita. Ora, questa ultra-sviluppata app di dating incrocia i “criteri” di ognuno e li fa lavorare, anzi li lascia vivere ad un livello puramente virtuale, elaborando la più perfetta delle compatibilità, con un’affidabilità del 99,8%.
998 su 1000 sono infatti le interazioni esclusivamente virtuali andate a buon fine tra Frank e Amy. Ma ecco l’aspetto più interessante della puntata: a cosa corrisponde il loro essere andate a buon fine? I parametri presi in considerazione sono fondamentalmente due: da un lato, il desiderio di ritrovarsi nonostante le circostanze della vita (il desiderio è quindi ineliminabile, ma non si ha quasi più tempo di occuparsene); dall’altro, la volontà di vivere la propria vita senza conoscere il proprio futuro, scavalcando ogni barriera che ci trattiene in uno stato di “controllata” ombra. L’amore come veicolo dell’in-finito. Belle parole, certo. Ma a cosa porta la loro fuga, il loro sfidare il mondo, se non alla semplice, ennesima, riconferma del funzionamento del sistema?
Spostiamoci quindi dalla pura soggettività del desiderio amoroso al piano sociale della lotta politica: il Potere (per dirla à la Pasolini), imponendo la religione dell’edonismo, fa sì che ogni anticonformismo sia immediatamente ricondotto alle logiche del godimento. La lotta o la fuga vengono così anestetizzate, ridotte ad un livello puramente potenziale, o ancor meglio virtuale, sicuramente effimero: l’impegno è anacronistico. Sacrifichiamo sull’altare dell’anima gemella “al 99,8%”, ossia di un godimento certo e sicuro, di un appagamento rapido e indolore, ciò che c’è prima e ciò che c’è oltre esso (termini-chiave della puntata): la spontaneità dell’amore, la fatica della ricerca, la possibilità di un’alternativa, anche qualora questa significhi errore. Insomma, il rapporto “dentro-fuori” rispetto al sistema è il rapporto che c’è tra una matrioska e quella un po’ più grande che la contiene. Se quindi la fuga d’amore è contemplata, riassorbita dal sistema, e in ultima istanza ad esso funzionale, non c’è una reale via di scampo: Forse bisognerebbe prestare ascolto agli Smiths quando cantano “Hang the blessed DJ, because the music that they constantly play, it says nothing to me about my life”. Ma il punto è che se il DJ mette “sempre la stessa musica” è perché funziona, riempie le piste, ci fa ballare sereni e liberi da ogni pensiero (ruolo principale della tecnologia). E se anche qualcuno si ricordasse del prima e dell’oltre, con una rara, superiore, consapevolezza circa l’autenticità della vita, si troverebbe di fronte alla pervasività di un sistema che si esprime in un’irrinunciabile quotidianità tecnologica, ma soprattutto si accorgerebbe – ancora con Pasolini – che il trono del Potere è vacante, la sua maschera vuota, e non c’è nessun DJ da poter impiccare.
EPISODIO 5. METALHEAD
Bianco e nero. Morte. Orsacchiotti. Le atmosfere ricordano quelle dell’incipit di Antichrist di Lars von Trier, ma senza Händel in sottofondo. Metalhead è il primo episodio di Black Mirror che potremmo definire post-apocalittico. Un autentico thriller di 40 minuti, registicamente bellissimo, totalmente decontestualizzato e che offre davvero pochi appigli per analizzare la situazione. Se infatti la sceneggiatura ha alti e (profondissimi) bassi, bisogna darle un merito su tutto: non ci spiega nulla. Siamo catapultati in un mondo angosciante, incomprensibilmente ridotto ad un’assurda lotta per la sopravvivenza che gli ultimi scampoli di umanità si ritrovano ad affrontare contro cani-soldato.
E se si parla di cani-soldato la mente non può che tornare al canino corpo di polizia politica della Animal farm di George Orwell. Certo, il parallelismo va fatto con ogni precauzione possibile: Metalhead non è di certo un racconto distopico della rivoluzione russa e della degenerazione stalinista. Ma c’è da notare che fin dalle primissime battute il riferimento appare palese dal momento che si parla non solo di cani ma anche di maiali, per l’esattezza maiali scomparsi, e se ne parla con una certa nostalgia: in fondo, in Orwell, erano comunque i maiali ad aver dato vita – per citare proprio Bella, protagonista della puntata – ad una “società egualitaria”. Ora, in questo mondo piatto, in bianco e nero, i maiali sono scomparsi: è scomparsa cioè la politica, o ancor meglio sono scomparsi quegli “individui cosmico-storici” – come li chiamava Hegel – in grado di sopportare il peso di dirigere la storia, in un senso piuttosto che in un altro. Oggi della politica resta solo la sua emanazione, il suo strumento di controllo e repressione, la polizia appunto.
Cosa ci dicono i cani circa la società in cui viviamo? Non conosciamo lo scopo per cui sono stati creati. Fini militari? Puro divertissement? Sappiamo solo che hanno eliminato i maiali e che sembrano programmati per una spietata caccia all’Uomo (la U non è maiuscola a caso). Fuor di metafora, i cani non rappresentano altro che l’ansia di controllo sociale e di sicurezza che caratterizza la nostra epoca. Pensiamoci: cosa si cela dietro le urla di indignazione che si levano ora contro la casta dei politici corrotti, ora contro le lobbies dei vaccini, ora contro il potenziale Weinstein di turno, ecc.? Non una reale spinta al progresso civile e culturale, la quale richiederebbe una rivoluzione (in senso stretto) del mondo e del modo in cui viviamo. L’assenza di un’efficace “proposta politica” che spesso viene evidenziata in questi movimenti è sintomo del loro carattere spiccatamente conservativo (più che conservatore). E cosa difendono i cani di Metalhead se non lo status quo? In luogo di maiali in grado di direzionare politicamente la storia dell’umanità, nel bene o nel male, ad amministrare le cose restano semplicemente i loro strumenti di adeguazione coatta ad un certo ordine, di omologazione.
Brooker ha dichiarato di aver tratto ispirazione da un video in cui un cagnolino gioca teneramente con un cane-robot (somigliantissimo alle nostre spaventose “metalhead”). Indizio fondamentale: i cani sono giocattoli. Cosa c’è di meglio di un giocattolo per far sì che il bimbo smetta di frignare? Cosa rappresenta meglio di un giocattolo i bisogni futili impostici da una società conformistica ed edonistica? La tecnologia, quindi, si riconferma per l’ennesima volta strumento di controllo sociale. E allora come ci si oppone ad essa? Come se ne esce?
Il destino dei tre personaggi umani della puntata non sembra dare molte speranze in tal senso. Ma chiediamoci: Bella e gli altri muoiono in quanto uomini o piuttosto in quanto ribelli? La loro ribellione consiste nel mettere a repentaglio la propria esistenza per trovare dei semplici orsacchiotti: un altro giocattolo, ma stavolta un giocattolo “vecchio”. Il loro è il tentativo di recuperare una dimensione ludica “altra” rispetto al conformismo imperante, non “opposta” né tantomeno “precedente”, bensì rigorosamente “altra”, “estrinseca”. Autenticità, genuinità creativa, Umanità con la U maiuscola. Ma la missione è tout court impossibile. Ancora una volta il finale appare claustrofobico, coi cani che scannerizzano lo scatolone dei peluche, completamente aperto a terra ma oramai del tutto “innocuo”. Eppure uno spiraglio è lasciato aperto, o meglio socchiuso. Bella oppone alla morte omologante inferta dai cani, una morte auto-procurata, a testimoniare come l’ultimo luogo della libertà sia non il suicidio in senso stretto, ma la consapevolezza della morte, la “umanissima” accettazione della realtà.
EPISODIO 6. BLACK MUSEUM
“There’s gotta be a But”. Sono le emblematiche parole di Nish, l’ultima delle sei protagoniste femminili di questa quarta stagione. Black museum è un episodio autocelebrativo, una musealizzazione di quasi tutto ciò che Black Mirror ci ha raccontato dalla sua prima messa in onda. Una sintesi perfetta del Brooker-pensiero, che la frase di Nish riassume alla perfezione: c’è sempre un “ma”. La tecnologia è innegabilmente fondamentale in molti ambiti, e rinunciarvi, tornare indietro, sarebbe folle. Ma ciò non ne esclude la pericolosità, la quale non è un moralistico a priori ma deriva, come al solito, dall’impiego che l’uomo ne fa, o meglio deriva dal suo immergersi in essa come in un artificiale liquido amniotico, protetti dalle pareti della placenta e dal cordone ombelicale che ci impermeabilizzano rispetto all’esterno, ricacciando nel dimenticatoio la domanda sull’altra faccia della medaglia.
La storia di Dawson è paradigmatica: la tecnologia crea legami prima impensabili, riesce a veicolare sensazioni, emozioni, significati spesso meglio delle parole, permette la comunicazione laddove prima c’era incomunicabilità, e i medici sanno perfettamente quanto l’incomunicabilità dei sintomi renda problematica la diagnosi e spesso drammatico il loro lavoro. La tecnologia arriva a mettere in comunicazione cervelli, corpi, e in questo modo salva vite. Poi però il dottor Dawson sperimenta la morte, che è un modo per tradurre l’esperienza della propria finitezza. A quel punto la funzione della tecnologia è corrotta: la sua ausiliarietà si rovescia in necessità, dipendenza. La semplice protesi diventa il corpo stesso nella sua interezza, i bisogni bio-logici vengono sostituiti da quelli tecno-logici, restano come bisogni naturali, corporei, ma non possono che risultare perversi. Il but della tecnologia sta quindi nella ricerca del dolore come fonte di piacere, ad indicare proprio la perversione e il ribaltamento della logica naturale-corporea in una logica edonistica tutta tesa al benessere. Ciò che alla fine resta di Dawson è rappresentazione perfetta dell’uomo di quest’epoca: egli sopravvive in uno stato comatoso ma beato, sorride anche se (o proprio perché) dorme.
Tema cruciale di Black museum (e dunque di Black Mirror) è proprio il rapporto con la corporeità, messa tra parentesi, sospesa, resa una delle tante “opzioni” possibili. La tecnologia, nel suo esser veste (e non più protesi) corporea, mette in discussione proprio l’indiscutibile unitas di corpo e anima che è unità, univocità e unicità. Ciò che io sono, ciò di cui la mia coscienza è cosciente prima di ogni altra cosa che non sia se stessa, è il “mio” corpo. È evidente del resto in questo episodio il riferimento a Cartesio. Pensiamo al secondo racconto di Rolo Haynes, quello della tragicomica vicenda di Jack e Carrie. La coscienza della giovane madre – partendo dall’assunto appunto cartesiano della separabilità concettuale della res cogitans dalla res extensa – viene effettivamente separata, grazie alla tecnologia, da quella carne morente e trasferita nel cervello del marito. Paradosso: due soggetti pensanti che coesistono in un solo corpo, condividendone le affezioni. Ma a quel punto a chi dei due “io” appartiene quel corpo? Certo, Cartesio affermava che io chiamo “mio” un corpo solo per “un qualche diritto speciale”, ma quel diritto non può non appartenere ancora a Jack, tanto che quest’ultimo si vedrà costretto a fare un passo indietro rispetto alla decisione iniziale per vivere appieno la sua vita, e la coscienza di Carrie sarà nuovamente trasferita, questa volta all’interno di una scimmia di peluche. Ancora una volta il giocattolo “vecchio”, recuperato in questo caso dalla tecnologia ma immunizzato, reso innocuo, pronto per essere sfruttato e poi buttato via, come se niente fosse. Eccolo, il destino della corporeità nella post-storia: il nostro corpo, ciò con cui siamo nella più grande e libera intimità, è sostituibile, è messo a disposizione del benessere, ultimo ideale nell’epoca della tecnica. Dov’è il but della tecnologia se non in una promessa di immortalità al prezzo di corpi asettici?
Ora, proprio in virtù dell’unitas di cui parla Cartesio, se il corpo è ridotto a materia sfruttabile la coscienza non può non subire un contraccolpo. Scorporata, essa diventa un fantasma digitale, un mucchio di bit su cui poter agire a nostro piacimento. Si pensi agli haters: quanto di questo fenomeno si deve alla possibilità, fornita dai social network, di entrare in contatto con degli avatar, di avere a che fare con “profili” piuttosto che con soggetti in carne ed ossa? Clayton Leigh è una coscienza scorporata di questo tipo, costretta dietro un vetro e, in questo modo, spettacolarizzata. È l’attrazione finale del Black museum, una coscienza messa a disposizione del “pubblico al di qua del vetro” perché questo possa sfogare su di lui i propri istinti più reconditi, il dominio, la violenza: tanto è un fantasma, non ha un corpo, non può morire… Rick Daly, nel primo episodio della stagione, metteva cinicamente in luce questo aspetto, e i metodi di tortura da lui utilizzati per sottomettere l’equipaggio ricordano molto i portachiavi con all’interno la coscienza di Clayton Leigh, clonata nell’istante del massimo dolore, e costretta quindi a subirlo in eterno: “always on, always suffering”. Dunque come tanti piccoli “dottor Dawson”, i visitatori del museo traggono piacere dal dolore, il che vuol dire, in altri termini, che l’importante, ad oggi, è il godimento: se il desiderio ci rende attori passivi, il godimento risiede nell’essere spettatori attivi. Non più solo guardare il naufragio dall’alto ma esserne responsabili, pur restando in quella posizione di beata superiorità.
Per l’ultima volta quindi: come uscirne? Le battaglie, le proteste contro il “sistema” di Haynes non sono servite a molto, e se anche il grande pubblico si è allontanato dal suo museo del crimine, un certo tipo di clientela, quella più corrotta e perversa, ha continuato a frequentarlo, mentre per tutti gli altri il potere ha trovato – “a suon di hashtag” – altre vie per esercitare il suo controllo. Intanto però il museo andava bruciato e il suo padrone doveva subire la stessa sorte tremenda di Clayton o di Carrie, di cui lui stesso si era reso responsabile. In un finale claustrofobico quanto può esserlo la route americana che si intravede nell’ultima sequenza, Nish si fa carico dell’atto eversivo (unica “rivoluzione” possibile) e ribadisce per l’ennesima volta il leitmotiv che attraversa e tiene insieme la sua storia e quella di Nanette in Uss Callister o quella di Bella in Metalhead: l’unica via di fuga passa necessariamente per l’accettazione. Accettare il sistema, a partire dalla consapevolezza di quel “but”, è – per Charlie Brooker – l’unico modo per emanciparsi da esso, accettare la morte è l’unico modo per riaffermare, in qualche modo, la propria umanità. Alla prima sedia elettrica, quella imposta dal potere, che aveva punito Clayton con l’immortalità tecnologica, si oppone una seconda sedia elettrica, quella eversivo-salvifica azionata dalla figlia Nish nella tragica consapevolezza che il ritorno alla libertà deve passare per la morte, per l’accettazione della finitezza.
Lorenzo Di Maria è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Lo Sguardo e Players.