illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Marta Gambetta
Nel 2017 molte delle intuizioni fantascientifiche dei secoli passati hanno definitivamente assunto il carattere di realtà. Non solo, la realtà contemporanea risulta essere tanto intessuta di tecnologie create dall’essere umano, da rivelarsi in ultima analisi come interamente costituita da esse. Sarebbe impossibile infatti – per chiunque – immaginare un presente senza computer, tablet o smartphone, senza connessione internet (rigorosamente wireless), senza social network; non potremmo vivere facendo a meno di notizie in tempo reale, di servizi come Netflix e Spotify, non sapremmo come orientarci senza navigatore satellitare o come connetterci con il resto del mondo in assenza di Skype o WhatsApp. Anche i più nostalgici, coloro che si sono dovuti adattare gradualmente alle nuove tecnologie, sarebbero sorprendentemente spaesati e preoccupati dall’eventualità di tornare a vivere in un mondo analogico: le conseguenze sarebbero considerate catastrofiche tanto per la vita privata quanto per quella sociale e lavorativa. Gli schermi neri, vissuti un tempo come corpi estranei nello scorrere della vita quotidiana, assumono ormai un volto familiare, guidano l’individuo e lo accompagnano alla stregua di angeli custodi dal primo risveglio fino al calare della notte. Non altrettanto difficile da immaginare è invece la possibilità che si concretizzi una degenerazione tecnologica, in parte prefigurata da tempo, le cui estreme conseguenze sono esemplarmente portate sulla scena televisiva da una delle serie maggiormente acclamate negli ultimi anni: Black Mirror. La serie TV britannica, ideata e prodotta da Charlie Brooker, viene trasmessa per la prima volta nel 2011 in Inghilterra, nel 2012 arriva in Italia e, non a caso, vince l’Emmy Award come migliore miniserie televisiva.
La serie in questione è composta da episodi indipendenti e auto-conclusivi che catapultano lo spettatore, di volta in volta, in scenari distopici di vari futuri possibili. Ciò che accumuna ogni puntata è infatti il darsi di una società futura interamente dominata da una specifica tecnologia che – dipendentemente dal contesto immaginato – annienta, estremizza o distrugge ogni forma umana di emozione, di raziocinio, di immaginazione. Ce n’è veramente per tutti i gusti, dalla tirannia dei social network a quella dei reality show, passando attraverso la possibilità di realizzare impianti in grado di sostituire alcune tra le funzioni prettamente umane. Il risultato è un prodotto televisivo che inquieta lo spettatore: al concludersi di ogni episodio egli si ritrova shockato di fronte ad uno schermo nero che – solo per un istante – viene osservato con sospetto e preoccupazione. Questo accade perché ciò che Black Mirror porta sulla scena non è in fin dei conti così lontano dal presente contemporaneo, i sistemi tecnologici immaginati sono solo in parte frutto di fantasia e per lo più possono essere considerati come configurazioni finali di ciò che già regola le vite di ogni individuo.
Un passo indietro
Anders indaga dunque il rapporto che intercorre nel XX secolo tra individuo e tecnologia. Ai suoi occhi questo vincolo, inizialmente controllato dall’essere umano, subisce un progressivo e silente rovesciamento che trova la sua conclusione con il semi-totale spodestamento dell’essere umano dalla propria torre di controllo. Il timore provato dagli individui, in sporadici momenti di introspezione, al cospetto delle macchine prodotte dallo sviluppo tecnologico del genere umano avrebbe così origine a partire dal mancato riconoscimento di questi stessi oggetti come prodotti. I tecnici o gli scienziati, e ancor di più le persone “comuni”, seguendo questo punto di vista, sarebbero impossibilitati a riconoscere come propri, come frutto del proprio lavoro, gli oggetti tecnologici realizzati a causa delle metodologie
Un futuro già presente e inevitabile
Ma Anders si spinge ben oltre e arriva a ipotizzare gli argomenti (che attualmente si sentono ripetere senza sosta) dei sostenitori dello sviluppo tecnologico: tutto dipende dall’utilizzo che gli esseri umani decidono di fare delle nuove tecnologie; se infatti venissero considerate come semplici mezzi per l’agire umano sarebbero, come sono, di infinita utilità per la vita del genere umano e fungerebbero anzi da motore per un ulteriore progresso possibile. Niente di più falso. È proprio l’incapacità comune di rendersi conto della rivoluzione in atto a far parlare in questi termini: i mezzi non essendo conosciuti dai propri creatori in quanto prodotti sfuggono, autonomi, al loro comando cessando di essere mezzi, diventando agenti attivi, che plasmano e deformano, rilegando il genere umano ad una cieca passività che supera il conformismo per raggiungere un nuovo stato, quello del congruismo, della totale e ignara corrispondenza. Come afferma il filosofo nel testo del 1956 (è importante e impressionante sottolineare questa data) «la nostra illimitata libertà prometeica di creare sempre nuove cose (costretti come siamo a pagare senza sosta il nostro tributo a questa libertà) ci ha portati a creare un tale disordine in noi stessi, esseri limitati nel tempo, che ormai proseguiamo lentamente la nostra via, seguendo di lontano ciò che noi stessi abbiamo prodotto e proiettato in avanti, con la cattiva coscienza di essere antiquati, oppure ci aggiriamo semplicemente tra i nostri congegni come sconvolti animali preistorici». Gli esseri umani rimangono con un pugno di mosche in mano, con il sentimento di quello che viene definito dall’autore come dislivello prometeico consistente precisamente nel progressivo aggravarsi dell’asincronizzazione «tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti». Si assiste dunque, senza dover ricorrere a ipotetici futuri, a una progressiva oggettivizzazione dell’individuo e a una risultante reificazione dei rapporti sociali – anzitutto creata, come effetto collaterale non voluto, dallo stesso genere umano – che già nell’epoca contemporanea (e lo farà sempre più in futuro) si spinge oltre, fino a costringere l’individuo a rammaricarsi non di essere una cosa, ma di non esserlo, di non essere in grado cioè di raggiungere quel livello di autarchica perfezione.
L’astoricità contemporanea
A che punto siamo?
In conclusione si rende necessario constatare la paradossalità insita nella funzione, che esula dal puro intrattenimento, di una serie televisiva come Black Mirror. Una riflessione sulla contemporanea condizione di assoggettamento alle tecnologie e agli schermi neri è veicolata proprio da uno di questi schermi: perché? È forse un tentativo intimo di invertire la rotta e di rendere evidente ciò che altrimenti rimarrebbe inavvertito? Purtroppo spesso si ha ragione nel dire che non è tutto oro quel che luccica. Seguendo le parole di Anders: «quel che deve riuscire e riesce effettivamente è piuttosto che l’immagine, fattaci baluginare davanti agli occhi, ci privi della capacità di pensare al fatto reale, anzi addirittura di riflettere che «inoltre», oltre a quanto ci è stato offerto, esiste anche l’avvenimento reale. Le immagini, anzi l’immagine totale del mondo, ci è presentata appunto allo scopo […] di coprire il reale, e ciò con l’aiuto del sedicente reale stesso; cioè di far scomparire il mondo dietro la sua immagine. […] [L’immagine televisiva] offrendo una visione totale, falsa l’incommensurabile; e proprio mentre ci informa, ci inganna.»
Marta Gambetta è laureata in filosofia con una una tesi sul pensiero morale di Cora Diamond. Nel 2017 pubblica con la casa editrice L’Erudita una raccolta di poesie dal titolo L’alba al tramonto.