illustrazione di Matteo Sarlo
parole e foto di Luciano De Fiore
Stefan Zweig, rifugiatosi nel ’41 a Rio de Janeiro per sfuggire ai nazisti, credette di intuire nella società multietnica brasiliana una promessa di futuro. Un errore di Zweig, o è stato il Brasile a scegliere il modello sbagliato, si chiede Alberto Dinis, biografo dell’austriaco?
Eppure, la crisi attuale ha tratti di novità.
Partiamo da un dato di fatto. I brasiliani non hanno saputo o potuto inverare la visione di Zweig. Hanno scommesso sul modello di crescita più classico del capitalismo novecentesco. Corretto con provvedimenti di welfare dai Governi di centrosinistra dell’ultimo quindicennio a guida PT (Partido dos Trabalhadores, partito dei lavoratori), fino all’impeachment della Presidente Dilma Rousseff l’anno scorso: regime di controllo dell’inflazione, cambio flessibile e rigore fiscale. Ma dal 2009 l’esecutivo di Brasilia ha accantonato questa ricetta che comunque aveva garantito un certo grado di stabilità economica, per adottare una politica espansiva e misure di stimolo al consumo. Un cambio di rotta fallimentare.
Ne analizzava le ragioni in modo convincente un ricco fascicolo di “Limes” un paio di anni fa, descrivendo l’andamento delle performance dell’economia del Brasile nell’ultimo secolo come il classico “volo della gallina”: crescite del PIL repentine – addirittura a doppia cifra nel decennio di Lula, dagli inizi del 2000 – seguite dal ritorno a una stagnazione o recessione pluriannuale. Una traiettoria simile appunto a quella di una gallina, che compie un balzo ma che peso, limiti strutturali e incapacità riportano in breve nella polvere.
E oggi? Il Presidente Michel Temer è detestato dalla larghissima maggioranza, specie dopo aver attaccato i diritti dei lavoratori e dei pensionati con il progetto di riforma costituzionale – al voto in questi giorni – che innalzerebbe l’età pensionabile a 65 anni per entrambi i sessi: accettabile per i parametri europei, ma non in Brasile, dove la speranza di vita è di 74 anni scarsi. Non che i partiti, compreso il PT a lungo al governo, se la passino meglio, squassati dalla corruzione. E le elezioni sono già alle viste, nel 2018. Il vecchio Lula, riuscisse a candidarsi da uomo libero, potrebbe vincere di nuovo.
Eppure, guardandosi alle spalle, ripensando al Brasile dell’ultimo ventennio del Novecento, progressi se ne registrano. Le banche sembrano più solide di un tempo, c’è meno povertà, in alcuni distretti sono evidenti le eccellenze agricole e industriali. Ma infrastrutture vetuste, scarsa produttività e soprattutto una corruzione ancora arrembante frenano il paese. C’è modo di sottrarsi ad un destino recessivo, per quella che resta comunque l’ottava economia mondiale?
Se questa è la domanda che forse più angustia i brasiliani, altri tuttavia sembrano i temi che li appassionano di più. Tra i quali non saprei dire se rientra più quella “religione del popolo” che per decenni è stata il calcio: perfino il Maracanà, dopo le Olimpiadi, è stato abbandonato e soltanto la settimana scorsa il Flamengo è tornato a giocarvi una partita. Paradossalmente, nelle strade si parla non solo e non tanto di politica. Oggi la crisi si gioca sul piano di una battaglia culturale che sa di etica, di religione e di ideologia. Famiglia, sicurezza, educazione scolastica, diritti delle minoranze, confronto/scontro tra confessioni religiose diverse: sono questi gli argomenti che animano una vera e propria guerra popolare, non indolore.
Basti pensare all’ossessione securitaria della borghesia cittadina, ormai atavica datando almeno dagli anni Ottanta e tale da modificare addirittura lo spazio urbano. Da molti anni gli ingressi dei palazzi nei quartieri centrali delle città brasiliane sono protetti da recinzioni metalliche, allarmi, polizie private: non si entra con le proprie chiavi, ma solo grazie ai sorveglianti che si alternano giorno e notte. Paranoia o necessità? Le bande di delinquenti che a Rio dalle favelas “calano” su
Le risposte che sono diverse, variando a seconda dell’età e della sensibilità sociale. Quel che è indubbio è che si respira un’atmosfera di scontro sociale: già due anni fa, alla consegna del premio musicale brasiliano più ambito, uno dei rapper più rispettati del momento, Mano Brown, leader dei Racionais, ha ricevuto il riconoscimento dalle mani del bahiano nero Carlinhos Brown (marrone anch’egli, dunque, e tuttavia identificato con l’establishment dei ricchi sfruttatori) con lo stesso entusiasmo manifestato da Dylan nel ricevere il Nobel. Il suo compagno di band, KL Jay, ha rinforzato la dose: «Questo premio va a tutto il mio popolo venuto dall’Africa, ad arricchire l’Europa e l’America del nord. Per noi sono rimaste solo favelas e carceri».
Proviamo a seguire tracce meno calcate. D’altra parte, a detta di Agustina Bessa-Luís, il Brasile non si lascia vedere, né sentire altrimenti che attraverso quelli che la scrittrice portoghese chiama assombrações: apparizioni, come quelle di un fantasma. Improvvisi disvelamenti e altrettanto subitanee coperture. Contorni fragili, come si conviene a manifestazioni spettrali.
Chico Buarque, immancabile la sua passeggiata sul lungomare di Ipanema alle 7 del mattino, santone della MPB (Musica Popolare Brasiliana), ma attento alle contaminazioni ed alle innovazioni, al punto da rendere omaggio nel suo ultimo lavoro ad un rapper molto interessante, il paulista Criolo.
Intanto, guardo le tele di Dallier. Materiche, costruite con ampie pennellate di colori accesi. Pochissimi i paesaggi, molte le figure e i ritratti, nei quali l’influenza di un certo espressionismo è evidente. Ma le assonanze si ampliano ai fauve, a Picasso, Siqueiros e ad un Morlotti scomposto e vitalistico. Spesso in dittici o trittici, le tele riecheggiano lo spazio scenico, in movimento, molto teatrale. Dallier continua a far teatro anche col colore, entrando in scena col gesto pittorico. Anche se Paulo mi segue premuroso, notando che è autodidatta; che ha iniziato da naïf (vendendo molti quadri brutti, precisa) e che se proprio deve farmi un nome, direbbe Bataille.
Sì, proprio Georges Bataille. Del quale, peraltro, le belle librerie di Rio (Travessa a Ipanema, Saraiva a Copacabana, la raccolta Folha Seca nella rua do Ouvidor) offrono precise edizioni critiche. Certo è che librerie così belle attenuano il pessimismo dei miei spettri.
Mi accomiato da Paulo mentre mi parla dell’amatissimo nipote, figlio di suo fratello, morto giovane da un paio d’anni.
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Luciano De Fiore è docente di Storia della filosofia contemporanea. Tra le ultime pubblicazioni La città deserta. Leggendo il Sapere assoluto nella Fenomenologia dello spirito di Hegel; Philip Roth. Fantasmi del desiderio; Anche il mare sogna. Filosofia dei Flutti.