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Assombrações Apparizioni brasiliane di marzo [parte2]
07/04/2017|L'ANALISI

Assombrações Apparizioni brasiliane di marzo [parte2]

Assombrações Apparizioni brasiliane di marzo [parte2]
illustrazione di Matteo Sarlo
parole e foto di Luciano De Fiore

 

Ecco, la famiglia. Uno dei terreni di disputa più feroci tra progressisti e conservatori in Brasile. Nel 2015, la Camera dei deputati ha approvato un testo – lo Statuto delle famiglie – che definisce il nucleo familiare come “l’unione stabile tra due persone”. Punto. Magari. Apriti cielo: a partire dallo stesso sito della Camera che ha promosso un sondaggio popolare, chiedendo “Siete d’accordo sulla definizione di famiglia come nucleo formato a partire dall’unione di un uomo e una donna?”. Il sondaggio con più seguito nella storia del sito, con più di 10 milioni di risposte. E la maggioranza ristretta (51%) si è dichiarata per il No. Il sito è stato allora subito chiuso, avendo fallito il suo compito.
L’anima di un sito, questa volta non virtuale, ma immerso nella mata atlantica, nella foresta che un tempo copriva tutta la costa tropicale del Brasile, dal sud fino a Bahia, è Beth Bandeira. I suoi occhi chiari, tra il verde e l’azzurro, mi scrutano, mentre mi parla della natura della baia di Jatobá, dove vive. Una casa bellissima in un posto splendido, a pochi kilometri da Paraty e a metà strada – grosso modo – tra Rio e San Paolo. «Serve risoluzione per vivere, anche in un posto così bello. Non tutti ce la fanno. Per i più giovani è ancora più difficile. La mata atlantica è una memoria fortissima del Brasile, una presenza che divora se non si ha la confidenza e la cura per starci insieme, assorbendone l’energia senza subirne la prepotenza», dice Beth. La sua è stata una scelta. Perché a Jatobá è venuta a vivere, dopo esser nata nell’estremo sud di Minas Gerais, nella nobile ed intellettuale Juiz de Fora, al confine con lo Stato di Rio. Parliamo di suo padre, psichiatra: «Conosci il Museo delle immagini dell’inconscio, a Rio? Quelle 360mila opere le ha raccolte una donna eccezionale, in quasi 60 anni: Nise da Silveira, psichiatra e psicoanalista junghiana. Mio padre lavorava con lei». Erano gli anni Cinquanta e Nise – della quale è in libreria in questi giorni una nuova, interessante ricostruzione, dopo lo studio edito anche in italiano di Eugenio Pelizzari – gettava le basi di quella che in Italia si sarebbe chiamata antipsichiatria, l’unico accudimento possibile del prossimo con disagio mentale. «Nise fu accusata di essere comunista, durante gli anni di dittatura del Presidente Vargas. Conobbe il carcere e l’emarginazione: per otto anni le fu proibito di tornare a lavorare nell’istituto di Praia Vermelha, a Rio, il primo ospedale psichiatrico del paese. Vi si praticavano le terapie allora in voga, compresi elettroshock e lobotomie. Più che un luogo di cura, un carcere. Quando le fu concesso di riprendere a lavorare, ricominciò a combattere con ancora maggior determinazione per i diritti dei malati, impegnandosi per dar loro ascolto e un’occupazione. Solo in seguito capì che li si poteva aiutare anche assecondandone l’espressività, in nome di quella che chiamava l’arte vergine, arte che sapeva scovare in tantissimi dei suoi pazienti».Non si può non pensare all’art brut di Jean Dubuffet: ma in Nise da Silveira – alla quale è stato anche dedicato un lungometraggio, Nise, coração de locoura – l’aspetto artistico si accompagna con ancor maggior nettezza all’intento terapeutico e relazionale. E non a caso, Beth – guidandoci attraverso gli ambienti ariosi e verdi della sua grande casa – ci mostra con particolare affetto una piccola tela, dono di una bambina autistica che aveva eletto Jatobá a proprio luogo del cuore, grata per esser riuscita a esprimersi con la pittura.
Un invito a ricordare due esposizioni temporanee, adesso al MAR di Rio, dedicate l’una ai Luoghi del delirio, l’altra ad un’esperienza creativa basata sull’esteriorizzazione delle paure infantili.
Lugares do délirio segue l’aratro della creatività lì proprio quando de-lira, abbandona il solco, e ne traccia di diversi, di improbabili, a volte in apparenza assurdi. Per esempio, mettendo in mostra una serie di curiose, nuove e sempre antiche navi dei folli: in latta, panno, legno, modelli di jangadas nordestine e di ansimanti battelli amazzonici. Dove non è tanto importante il risultato, essendo l’opera stessa il gesto liberatorio che la compie.
Nell’altra, Il nome della paura, un gruppo di 240 bambini sono stati invitati a creare costumi che incarnassero le loro paure, e ad indossarli giocando. La piovra ed il pescecane, la strega e l’uomo nero restano a disposizione dei più giovani visitatori che senza esitazione li indossano e li fanno propri, interagendo, liberando le proprie fantasie e teatralizzando le proprie angosce.Lì dove la spiaggia di Ipanema fa un’ansa e piega verso gli scogli levigati dell’Arpoador, l’elegante Casa della cultura Laura Alvin ospita (fino al 4 giugno prossimo) una piccola personale di Oskar Metsavaht. Anche Oskar è medico, figlio di un pioniere del surf in Brasile e non a caso creatore e proprietario – fino a un paio d’anni fa – della Osklen, di cui resta direttore creativo, una delle marche di moda sportiva più famose dell’America Latina. Infatti è miliardario. Tra le sue mille attività, ha collaborato con la Andy Warhol Foundation of Art, ha creato una serie di orologi per il gioielliere H.Stern, ha disegnato una linea di sandali ed un’edizione speciale della vodka Absolut, ispirata a Rio de Janeiro. Eppure, grazie ad una decisa attenzione per creazioni ecosostenibili e per materiali poveri, è anche ambasciatore e rappresentante dell’UNESCO in Brasile, membro influente del WWF mondiale e siede nel consiglio direttivo di Inhotim, il più grande museo di scultura a cielo aperto del mondo, vicino Belo Horizonte.
Con Oskar il discorso torna sulla natura e sulle scelte che gravano sul Brasile oggi. Non c’è più tempo, basta indugi: il paese non può che scegliere di preservare le proprie risorse, coniugando sviluppo e sostenibilità ambientale, invece di sfruttarle selvaggiamente, come ha fatto nel corso degli ultimi cinque secoli. Anche i suoi scatti presenti nella mostra, ed il breve filmato proiettato in loop, dicono e promettono una Ipanema inconsueta, per lo più in bianco e nero, intonatissima al famoso lastrico ideato da Roberto Burle Marx per tutta Rio, in grado di connotare la città, seguendone il ritmo e specchiandolo nelle onde dei suoi tanti lungomare. Bianco e nero che sono anche il simbolo di quel sincretismo delle razze e delle culture che aveva affascinato il vecchio Zweig.
Al pomeriggio, frotte di ragazzini in divisa scolastica con i calzettoncini bianchi e le bambine in gonna plissé blu scura affollano i marciapiede e le fermate d’autobus. Anche loro sono al centro di una disputa. Negli ultimi anni si è fatto largo il movimento conservatore Scuola senza Partito, avversario dei maestri e professori accusati di “indottrinamento ideologico”, reclamando il diritto per i genitori di educare i propri figli senza interferenze. Il che tocca temi sensibili come l’educazione sessuale, le scienze e la stessa teoria evolutiva, vista con sfavore, soprattutto da membri di spicco di alcune confessioni cristiano-evangeliche, sempre più influenti (per dire, l’ex Presidente della Camera, Eduardo Cunha, per quanto corrotto e condannato, è un membro influente di una confessione evangelica e pentecostale). Accendete la radio: non sentirete subito un samba o un forrò. Sarà quasi automatico sintonizzarsi su una delle centinaia di emittenti cristiane, delle innumerevoli confessioni e sette che si dividono il mercato della fede in Brasile, contendendolo alla chiesa cattolica – isola di ragione e sentimenti altruistici, al confronto. Confessioni che, scusandoci per la generalizzazione, rilanciano in continuazione il coacervo di certezze alla base di quella che lo studioso di filosofia Rodrigo Nunes ha definito “la vittoria dell’oscenità”. Un grumo di idee inconfessabili, ma largamente professate dai guerrieri dello schieramento conservatore: che la colpa è degli immigrati (anche in Brasile, e sì), che il posto della donna è in cucina, che i poveri è meglio si tengano lontani dai nostri spazi, che i negri sono inferiori, che un bandito buono è un bandito morto, che i gay è meglio si vadano a nascondere e che, in fondo, il periodo dei Militari non era poi così male. Un sentimento diffuso che spiega anche in parte perché accadono e si permettano stragi in carcere come quelle accadute in rapida successione nei carceri di Manaus e Boa Vista.
Questi sono gli stati d’animo contro i quali i brasiliani progressisti sono chiamati a combattere. Una guerra civile e culturale destinata a durare a lungo, secondo Guilherme Freitas, giovane e brillante collaboratore della più bella rivista di approfondimento brasiliana, “Serrote”, e autore di un saggio che ci è molto servito nei nostri incontri.
Realtà complessa e divisiva, il Brasile. Asteniamoci dal dar lezioni: l’Europa è il luogo nel quale il giardino di Goethe quasi confinava con Buchenwald, ci ricorda George Steiner. Speriamo che quella forza incontrata nella natura della mata atlantica che circonda la casa di Beth, e che si ritrova in mille luoghi dal Mato Grosso all’Acre amazzonico, dalle acque ruggenti di Foz de Iguaçù alle folle meticce e resistenti di San Paolo, si preservi come una riserva di energie e di vita per questo immenso e struggente paese.

Dobbiamo, dobbiamo dimenticare il Brasile!
Così maestoso, così senza limiti, così spropositato,
vuole riposare dalle nostre terribili affettuosità.
Il Brasile non ci vuole! È stufo di noi!
Il nostro Brasile è nell’altro mondo. Questo non è il Brasile.
Nessun Brasile esiste. E per caso esisteranno i brasiliani?

Carlos Drummond de Andrade
Da: Inno nazionale, 1934

LEGGI PARTE 1


Luciano De Fiore è docente di Storia della filosofia contemporanea. Tra le ultime pubblicazioni La città deserta. Leggendo il Sapere assoluto nella Fenomenologia dello spirito di Hegel; Philip Roth. Fantasmi del desiderio; Anche il mare sogna. Filosofia dei Flutti.

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