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Alex Honnold su El Capitan

illustrazione e parole di Matteo Sarlo

D’accordo Yoghi e Bubu, il sistema operativo Apple e il logo della North Face (a proposito, qui potete comprare l’outfit di Alex: casomai vi venissero strane idee ci andate preparati), ma El Capitan nella valle di Yosemite è qualcosa di più che un semplice luogo geografico.
O almeno lo è  per Alex Honnold, che nel giugno 2017 ne scala i quasi mille metri di granito in free solo.

Lo racconta il documentario che ha debuttato il 2 aprile sul National Geographic, diretto da Elizabeth Chai Vasarhelyi e Jimmy Chin (in Italia visibile su Sky).
Free solo, vale a dire niente imbracature, niente chiodi, niente paracadute, niente di niente. Addirittura, stando a quanto ha confessato Alex Honnold nella sua autobiografia Nel Vuoto. Solo in parete, da qualche tempo senza nemmeno l’iPod: in un certo senso, scrive, «la musica fa parte dell’attrezzatura».

Tipo Ethan Hunt in MI2, la storia del “Se te lo dicessi, non sarebbe una vacanza”? Sì qualcosa del genere, ma peggio. E peggio per la più banale delle motivazioni, perché Alex Honnold l’ha fatto per davvero.
(In questo video Alex guarda e commenta Tom Cruise che fa climbing in Free Solo).

Ok, è arrivato il momento della domanda. Tanto è sempre quella: Cosa ha spinto Alex Honnold a fare una roba del genere?
Ci sono tre modi di vederla:

Uno: La domanda è mal posta e la filosofia del CTFF (Chi Te lo Fa Fare?) non ha le carte in tavola per scendere al tavolo delle interpretazioni. Honnold stesso la delegittima utilizzando la risposta di George Leigh Mallory interrogato dall’ennesimo giornalista sul perché scalare l’Everest: «perché è lì».

Ora, la frase suona molto vicina alla risposta, in tutt’altro contesto, sul perché Vladimir Nabokov avesse messo al centro della sua narrazione il desiderio sessuale di Humbert Humbert (che nome!) per una ragazzina di dodici anni (la risposta doveva essere o una discolpa moralista oppure una definizione del che cosa è la letteratura, una roba da voli pindarici): «per risolvere problemi complessi con soluzioni eleganti». Punto, facile facile.

Due: Non solo dobbiamo mettere da parte la filosofia del CTFF ma a scricchiolare, e parecchio, è anche il motto del “quello che conta è il tragitto non la meta”. Cioè, un po’ è ok ma il punto è più complesso. Perché qui il tragitto è molto, ma molto particolare. E non può essere apparentato a, che so, il traffico sulla salaria. La natura “folle” del percorso (quasi un chilometro in altezza) impone una metabolizzazione – anche se in forma irriflessa e esclusivamente esperienziale – di due concetti chiave della filosofia classica: la morte e il vuoto.

Tre: Forse la ragione che ha spinto Alex Honnold a compiere un simile gesto è vicina a quella che nel 1974 ha convinto Philippe Petit a mettere un piede sopra l’altro sul filo teso a 412 metri da terra tra le Twin Towers. E a compiere quel tragitto non una, ma otto volte, avanti e indietro, realizzando quello che secondo Werner Herzog è stato un gesto di estasi e bellezza.

Il punto però è che c’è una profonda differenza tra Philippe e Alex. Mentre il primo compie il gesto mirabile, il gesto da funambolo, il prestigio di chi ti fa credere di star camminando sulle nuvole, e dunque puntando sull’evento wow che redime una realtà da supermercato, il secondo si limita a compiere un evento un po’ meno da supermercato nella realtà da supermercato.
Detta diversamente, quella compiuta da Honnold non è l’esaltazione del gesto contro la realtà ma è la sottrazione della realtà rispetto al gesto.

Understatement o morte!

Alex «No Big Deal» Honnold, così lo avevano soprannominato gli amici più stretti. Alex non-un-granché Honnold. Persino in quell’impietosa operazione – crudele come soltanto in un’amicizia si può essere – del soprannominare, c’è del riserbo verso Alex Honnold. Come che con lui non si possa mai affondare il colpo fino in fondo.

In molte fotografie lo si vede con il volto spiegato, le orecchie più aperte di quanto dovrebbero e un sorriso un po’ sbilenco. Lo sguardo è quello a occhi stretti di un adolescente non abituato ad essere fotografato, conferendo in generale una certa atmosfera festiva all’avvenimento: la fotografia come posa. Un ragazzo che ha vissuto per molto tempo dentro una Ford Ecoline, mangiando da una ciotola con dei bastoncini anziché delle posate. Durante il documentario diretto da Chin, per dire, racconta di aver avuto diverse ragazze e ciascuna si era dimostrata drammatica rispetto alla possibilità della sua morte. «Dicevano “Oh ci tengo tanto a te” ma non è vero. Se dovessi morire troveresti qualcun altro. Non è una tragedia».

Intendiamoci non che sia falso, anzi. Il problema è proprio questo, è che è troppo vero. È come se in Honnold fosse disinnescata non solo l’attivazione dell’amigdala (in realtà i neuroscienziati parlano di un ritardo: servono sollecitazioni più alte per innescarla) ma la spinta alla costruzione finzionale.
Tutto nella sua vita è abbassato di un semitono. Tutto è meno. Mangia persino vegetariano.

Perciò alla domanda di prima, quella del “come ci riesce”, la risposta, detta in filosofese, potrebbe essere: attuando un “depotenziamento ontologico”. Il dispositivo funzionerebbe così: se non sto compiendo chissà quale gesto, se mi limito a eseguire una serie di operazioni che sono soltanto un po’ meno in un mondo di molto meno allora, tutto sommato, è una cosa che si può fare: No Big Deal.

#Honnolding

Eppure le cose non sono così semplici, nemmeno per Alex. Quando ha girato il suo primo film Alone on the wall (2009) insieme a Peter Mortimer e Nick Rosen, Honnold ha dovuto percorrere un gradino di pochi centimetri di spessore lungo 12 metri soprannominato Thank God Ledge. Per quella manciata di minuti, Alex rimane fermo, con la schiena attaccata alla parete, le braccia lungo i fianchi e la nuca dritta. Quello che è accaduto poi è che nel giro di un anno e mezzo quella foto ha fatto il giro del mondo, dando vita al cosiddetto fenomeno «Honnolding»: una quantità di imitazioni e parodie di persone, nella stessa posizione, in piedi a frigoriferi, scale, sciacquoni.

Nel Vuoto

Ma al di là delle gag, in quella frazione di tempo a centinaia di metri di altezza Alex ha consegnato al mondo qualcosa di superiore persino alla sua perfezione (se è vero che il reale motivo per cui fa free solo è, come ha dichiarato, sentirsi per qualche istante perfetto), perché in quel momento Alex ha consegnato una cosa molto simile alla sua vulnerabilità. Come se lassù, con solo un po’ di magnesite sulle mani, avesse fatto esperienza di qualcosa che nemmeno Michael Collins, l’astronauta tra i primi a viaggiare nello spazio, ha avuto occhi per vedere: il vuoto (almeno stando al suo resoconto Carrying the Fire: An Astronaut’s Journey).

Nella lingua tedesca sono numerosi i fraseologici sul vuoto. Espressioni quali Mit leerem Magen, il nostro «a stomaco vuoto». Leere Straßen sono «strade deserte». Un leerer Platz è un «posto vacante, libero, non occupato». Leeres Gerede sono «discorsi vani». Leere Augen sono «occhi inespressivi». Nel suo uso sostantivato, la sfera sinonimica è quella del Vakuum e, per traslato, quelle della Hinaltslosigkeit, la privazione di contenuto, e della Holheit, la vacuità. Nel lessico anglosassone invece To make a contract void è «invalidare un contratto», cioè azzerarne la sua possibilità d’uso, la sua efficacia. Lo «svuotamento» è qui, con limpidezza tipicamente inglese, legato all’annientamento dell’utilità della sostanza cui ci si riferisce. To fill the void è riempire il vuoto. Nel suo valore sostantivato il sinonimo è Emptyness.
Anche la lingua italiana ne possiede un fitto fraseologico: vuoto d’aria, a stomaco vuoto, starsene a mani vuote, girare a vuoto, vuoto di memoria, un salto nel vuoto, uscire a vuoto, fare il vuoto intorno a sé.
Se ora ripercorressimo tutti gli esempi riportati e segnassimo a fianco a ciascuno un segno + e un segno – a seconda della positività o negatività che il concetto di vuoto assume in quel determinato “contesto linguistico”, ebbene, ci ritroveremmo con molti + e pochi – (per non dire solo + e nessun – ).
È evidente: la lingua tradisce una preferenza della nostra sensibilità per i pieni, per le sostanze, per i volumi. Con il vuoto, non ci si sta.

Per qualche motivo lì sull’Half Dome Alex ha «avuto una sorta di piccolo crollo nervoso». Tutt’oggi la considera tra le esperienze di Free Solo più negative. Non è tanto quindi questione di aver visto Dio, come vorrebbe l’amico Nick Martino, quanto il suo esatto opposto: quello di aver visto il nulla.

Eppure Alex, atterrito come gran parte della percezione antica di fronte a una categoria così sinistra e sfuggente, spesso persino osteggiata, è come se avesse imparato in pochi minuti lo stesso cambio di prospettiva che il pensiero occidentale ha impiegato secoli per compiere: dal vuoto come assenza di materia, come scatola in cui depositare oggetti, dal vuoto come mancanza (mancanza di sostrato, di base, di sussistenza), al vuoto come energia attiva, come “pienezza differente”, come combustile, dimostrando quanto non sia effettivamente il «negativo» dell’essere, come lo volevano Talete, Aristotele (le ragioni le elenca in Fisica Δ) e buona parte della filosofia classica (ad eccezione degli atomisti: bisognerà aspettare il 1417 quando Poggio Bracciolini ritrovò in un monastero in Germania il De rerum Natura di Lucrezio per vedere corroborata la verità di Democrito), ma, per dirla in termini fisici, una probabilità, una “campo” d’energia. Senza scomodare Faraday-Maxwell, basta il Guardiola blaugrana: «non abbiamo un centravanti, perché il nostro centravanti è lo spazio».
Più chiaro di così.

Una cosa non ho capito: se sbagli, muori

Il documentario di Chin si apre con Alex ospite in una trasmissione televisiva. La conduttrice se ne esce con la cosa più banale del mondo, in forma di domanda. Tanto per lasciarsi un po’ di margine, in caso stesse per fare la figura della perfetta idiota: «Una cosa sola non capisco, basta il minimo errore, la minima scivolata, e puoi cadere e muori». Non-un-granché Honnold indossa una felpa verde, sotto il tavolo i pantaloni cadono abbondanti sui lacci delle scarpe. Se ne sta seduto lì come se stesse aspettando una pizza. Poi non si smentisce: «Sì, in realtà vedo che hai capito bene». E prosegue: «Io so che chiunque può morire in qualsiasi momento. Il Free Solo te lo fa capire in maniera più immediata e più concreta».

Ora, c’è un’altra frase che Alex pronuncia poco più avanti nel documentario e che fa sistema con questa. Eccola: «Il free solo è una faccenda personale, non ne puoi parlare con nessuno».

Ancora una volta: A che pro? Come è possibile sostenere il peso del sacrificio, della morte per nulla? Perché, per chiarire il punto, è questo ad isolare Honnold, a mapparlo nella zona geografica della follia. Perché, a differenza di Collins che sì ha rischiato la vita infilandosi nel razzo che lo avrebbe sparato a 16mila chilometri orari fuori dall’atmosfera terrestre (senza poi nemmeno scendere sulla Luna e aspettando gli amici Aldrin e Amstrong sul modulo lunare in orbita per andarli a riprendere, e facendo così la figura del tassista spaziale) ma lo ha fatto per un fine riconosciuto, nobile, la ricerca, il grande passo per l’umanità eccetera eccetera, Alex non ha nessuno scopo.

Proprio attorno a questa domanda girava il filosofo franco-algerino Jacques Derrida, bombardando Martin Heidegger con Emmanuel Lévinas, Søren Kierkegaard con Jan Patocka. In buona sostanza Derrida credeva questa cosa qua, sembra stupida ma non lo è: la morte è l’esser sempre mia. E se nel Fedone Platone definiva la filosofia stessa come «anticipazione (epimeleia) sollecita della morte» allora, con Martin Heidegger incrociato da Derrida, nella preoccupazione della morte (soltanto nella preoccupazione della morte) mi rapporto alla mia libertà.

Paro paro l’Honnold di «è una faccenda personale». Nel contatto con la possibilità della morte, che nei fatti è una possibilità dell’impossibilità, faccio i conti con il massimo della mia determinazione. Non è tanto la questione del supero i confini, l’adrenalina, l’acido e via dicendo. È una questione di inglobare la morte nel proprio esserci. Con le parole di Honnold: «Avendo perso amici e parenti è altrettanto naturale pensarci. Fa parte della nostra vita. Le persone attorno a noi muoiono. Noi stessi, prima o poi, moriremo».

Sempre pulito, sempre minimal. Perché in fondo in fondo si tratta soltanto di una cosa, una soltanto. Trovare soluzioni eleganti, a problemi complessi.

Matteo Sarlo è nato a Roma nel 1989, dove vive e lavora come editor.
Nel 2018 ha pubblicato Pro und Contra. Anders e Kafka, una riflessione sulla filosofia di Günther Anders interprete di Franz Kafka.
Ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana.

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