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COUNTRY DARK – Il Buio, la Lontananza e il Ritorno a Casa
17/07/2018|L'EVENTO

COUNTRY DARK – Il Buio, la Lontananza e il Ritorno a Casa

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Marco Quaglia
 

Cominciamo dal titolo. Country dark è un’espressione difficilmente traducibile. Avendo bisogno di una perifrasi, perderebbe ogni efficacia se messa a confronto coll’immediatezza visiva del corrispettivo inglese.
Country dark è il colore del cielo nelle notti di campagna, un nero pesto, molto diverso da quello cittadino, smorzato e slavato dalle luci artificiali.

Il cielo, questo cielo, è un protagonista ricorrente del libro. Siamo ancora all’inizio, appena a pagina ventuno nell’edizione Minimum Fax, tradotta da Roberto Serrai. Tucker, il protagonista non ha ancora 18 anni ed è già reduce di guerra, appena rientrato dallo sporchissimo conflitto di Corea. È la sua prima notte dopo molto tempo in Kentucky:

Tucker aveva sentito la mancanza della nuda distesa del cielo notturno,  del grappolo delle Sette Sorelle, della Spada d’Orione e dell’Orsa Maggiore che indicava il nord.  (…) La linea degli alberi era sparita e la cima delle colline si confondeva con l’arazzo scuro della notte.  Era nero come la pece, com’è sempre in campagna.

Offutt decide di seguire la sua vita e quella di pochi altri: sua moglie Rhonda, il gangster Beanpole. Una vita violenta, frammentata in quattro anni: 1954, 1964, 1965 e 1971.
Sono queste le finestre dalla quali Offutt decide di farci sbirciare questo fazzoletto d’America.

Qui la vita è dura come la roccia. Americani di qualche decennio fa certp, ma è come se fossero coloni del XVII secolo. Lei salvata da lui da un tentato stupro ad opera dello zio nel giorno del funerale del padre. L’amore improvviso e il matrimonio deciso l’indomani mattina. Avranno molti figli, Tucker e Rhonda, tutti, ad eccezione di due, malati o con deficit cognitivi e motori. La comparsa degli assistenti sociali, una minaccia costante all’unità familiare. Una minaccia che infesta la casa/famiglia ben più della povertà e della miseria, facendosi un momento di snodo decisivo per l’intera narrazione.

Tucker, che senza alcuna alternativa si è dato alla malavita, al traffico di alcolici tra Ohio e Kentucky, non esce mai dalla spirale della violenza. Così,  d’accordo con Beanpole, finirà in carcere per togliere dai guai entrambi. Qualche mese di prigione in cambio di molti soldi e nessun fastidio una volta uscito.

Neanche a dirlo, la vita non funziona così. I pochi mesi diventano anni e una volta fuori Tucker ha perso quasi ogni cosa, a cominciare dai figli più fragili, che lui e sua moglie amavano tantissimo.  Toccante è il rapporto con Big Billy, il primogenito, idrocefalo e inchiodato ad un lettino, cieco e quasi vegetale. Tucker trova solo con quelle orecchie inermi la loquacità e la tenerezza che invece nega violentemente al mondo fuori le mura domestiche.

Una narrazione tenere e violenta allo stesso tempo che, sotto la superficie della brachilogia, di criminalità e zuffe col coltello, smaschera la vera il reale duplice tema di Country Dark: la lontananza e il ritorno a casa.
Il Kentucky descritto da Offutt sembra lontano da ogni luogo. Una vera periferia del mondo. I riferimenti annuali, che scandiscono i quattro capitoli, sono come i calendari nelle vecchie cucine di campagna: segnano la differenza tra un giorno e l’altro in un posto dove ogni giorno è uguale all’altro. Non entra mai la Storia nella storia di Tucker, Rhonda e Beanpole. Non è nemmeno dato sapere quanto della violenza del protagonista sia dovuto alla guerra e quanto no. La Corea, il Vietnam,  Lyndon Johnson; il mondo si incendia ma tra le colline del Kentucky, tra questa umanità lontana, ci si accoltella, si lotta contro nidi di calabroni, e più in generale ci si preoccupa per come andare avanti un giorno in più.

E poi c’è la casa, anelata da Tucker più di ogni cosa. La casa che è naturalmente più di un tetto.  Il simbolo da contrapporre al mondo esterno, rifugio dove anche la solitudine è beata. Tanto che quando, a seguito dell’accordo che lo porta in carcere, Tucker ottiene uno scambio di case proprio con Beanpole, la conseguenza emotiva dello spostamento diventerà presto manifesta.

«Ti manca mai casa nostra?»
«Ogni giorno».
«Era più piccola».
«Era nostra» disse lei. «È dove sono nati i bambini».
«Forse possiamo ricomprarla».
«Mi piacerebbe».
(p.218)

È in questo genere di dialoghi tra Tucker e Rhonda che Offutt tira fuori una forma di romanticismo che potrebbe sembrare aliena al tema e all’ambientazione del libro. Tucker stesso assume i connotati di un eroe, con quegli occhi di colori diversi e quell’incrollabile desiderio di fare ritorno a casa, nemmeno fosse Odisseo. Si tratta in fondo di un personaggio molto comune nella letteratura americana, un Tom Joad che ha perso l’innocenza, così come l’America degli anni Cinquanta e Sessanta ha perso la sua se messa a confronto con quella seppur misera degli anni Trenta descritta da Steinbeck in Furore.

Eppure vi è ancora qualcosa che puó salvare l’America profonda. In questo il messaggio di Offutt ricorda per certi aspetti quello di Haruf della Trilogia di Holt, anche lui da poco scoperto in Italia grazie ad NNE. E in fondo sembra una costante della letteratura americana non urbana. È proprio in questa America, gretta ed ignorante, che anche nelle storie più violente, riusciamo a riscoprire elementi ormai sotterranei dell’essere umano.

Stando ad Offutt la differenza sta proprio in quei cieli, neri come la pece, e nelle stelle, che brillano e orientano i disperati in grado di leggerle, fino a far ritrovare loro la strada perduta, la strada di casa.


Marco Quaglia è laureato in Relazioni Internazionali. Nel 2017 ha pubblicato insieme a Shareable.net un libro collettivo sul fenomeno delle città condivise “Sharing Cities: Activating the Urban Commons“. Cura un blog di letteratura.

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