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The Truman Show, 20 anni dopo
12/06/2018|L'ANALISI

The Truman Show, 20 anni dopo

The Truman Show, 20 anni dopo
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Lorenzo Di Maria

20 anni fa Peter Weir immaginava Truman Burbank, un uomo la cui vita era spiata e trasmessa a sua insaputa. Un anno prima John De Mol creava Il Grande Fratello, il padre di tutti i reality. Analisi di due paradigmi, spesso sovrapposti, della contemporaneità.

Il 5 giugno di venti anni fa usciva negli Stati Uniti un film destinato ad un successo intramontabile, forte della sceneggiatura robusta di Andrew Niccol, della regia attenta e originale di Peter Weir e del genio assoluto del protagonista Jim Carrey: The Truman Show.
Non è di certo un caso che un anno prima, nel 1997, proprio mentre la pellicola era in fase di produzione, John de Mol, un produttore olandese, creò quel franchise destinato ad un successo mondiale ancora oggi perdurante: The Big Brother, il padre di tutti i reality.

Similarità
Le analogie sono evidenti: persone comuni sono sia i concorrenti del Grande Fratello sia il protagonista del film, Truman Burbank (aka Jim Carrey); in entrambi i casi, telecamere nascoste spiano la quotidianità dei protagonisti in ogni azione, spostamento, dialogo, ecc.; in entrambi i casi, il mondo in cui sono rinchiusi, che sia la villetta del GF o la ridente cittadina di Seahaven, altro non è che un grande studio televisivo del tutto impermeabile al mondo esterno.

Ulteriore elemento in comune, subliminale nel reality, esplicito e ridondante nel film, è il product placement, anche se l’ultima edizione del GF Italia targata Barbara D’Urso passerà alla storia della televisione proprio per la fuga degli sponsor. Ma interessante è la motivazione che sta dietro tale fuga: non si tratta di un semplice opportunismo legato al calo degli ascolti – che anzi si attestano su livelli ancora altissimi. Le ragioni sono infatti tutte di natura etica. Etica significa visione del mondo. E se cambia il criterio etico vuol dire che è cambiato il mondo.

Differenza = Consapevolezza
Al di là degli ascolti, infatti, The Big Brother ha esaurito il suo potenziale rappresentativo, o perlomeno è stato costretto a ridimensionarlo notevolmente o semplicemente a reindirizzarlo. The Truman Show invece, a distanza di vent’anni, sa farsi ancora paradigma perfetto del mondo in cui viviamo. Del resto, se da un lato le analogie sono evidenti, dall’altro non possono sfuggire le fondamentali differenze. Innanzitutto, il televoto. Vivere la quotidianità con una mannaia sul collo non deve essere facilissimo per gli inquilini della Casa. Il giudizio del pubblico svolge un ruolo fondamentale nella determinazione del libero comportarsi dei vari concorrenti, chiamati a fare di tutto (compreso optare per la spontaneità più genuina, e spesso bruta) pur di riconfermarsi, pur di essere accettati. La loro libertà rigidamente condizionata (e che lo è ancor di più proprio nella misura in cui spesso e volentieri non ci si fa scrupolo alcuno nonostante le telecamere) non ha nulla a che vedere con la libertà di cui gode Truman. Un’autonomia pressoché totale. Almeno dal suo punto di vista. A fare da discrimine è infatti la consapevolezza. Truman non sa di essere a sua volta “teleguidato”, se non da un televoto sicuramente dalle ragioni degli sponsor, dalle oscillazioni degli ascolti, dalle logiche spettacolarizzanti dell’eclettico regista Christof (aka Ed Harris).

L’alternativa al televisivo è possibile, quindi inattuabile
Cosa avrebbe potuto scalfire quell’ingenuo senso di libertà? Seahaven è infatti il suo “porto sicuro”, il (non-)luogo in cui nasce, cresce, lavora, si muove, si innamora, vive rapporti umani apparentemente autentici. Dov’è allora che si manifesta il limite? Dov’è che tale apparenza di libertà assoluta cessa di essere? Nel momento in cui sorge l’esigenza intima in Truman di andar via, scappare alle Fiji, ossia di provare esperienze radicalmente nuove, di trovare un’alternativa a quel “porto sicuro”. Il sistema in cui vive Truman, che è in fondo metafora del nostro mondo, è claustrofobico, un po’ come i mondi disegnati da Charlie Brooker in quest’ultima stagione di Black Mirror. Scappare dall’universo televisivo del Truman show è possibile: lo stesso Christof confessa in un’intervista di aver lasciato a Truman anche la libertà di fuggire (alla fine la porta dello studio non è mica chiusa a chiave). Ecco, il punto è proprio questo: fuggire è il sempre possibile, e dunque l’inattuabile. Innanzitutto occorre prenderne consapevolezza, ma anche nel momento in cui la si è ottenuta è il mondo stesso a trattenerci: gli affetti, l’amore, gli amici, il traffico, il richiamo ad una razionalità passiva, la logica della vita quotidiana, quella delle cose che vanno da sempre così. Se poi si riesce a troncare di netto anche con questa logica e la frattura è divenuta insanabile, ecco il mare a fungere da confine invalicabile. Mare che in psicanalisi è il simbolo del materno, dell’elemento fobico e nevrotico per antonomasia: la profondità sotto la superficie, l’instabilità fino all’orizzonte in ogni direzione, lo rendono emblema dell’inattuabilità di ogni cambiamento autentico. Superato anche quest’ultimo, intimo, oceanico, ostacolo, Truman, davanti al fatto che addirittura il cielo si sia rivelato un muro, ascolta le parole di Christof/Dio. Il finale è liberatorio, ma meno “lieto” di quanto potrebbe apparire. Truman è l’eroe che sa prendersi l’applauso del pubblico e uscire di scena, per affrontare una vita radicalmente diversa, un mondo radicalmente nuovo. Ma Christof gli aveva appena fatto una rivelazione sconcertante: anche quel Novum è claustrofobico. Il ritorno al cosiddetto “mondo reale” è fittizio. La fuga dal sistema si rivela sempre come ingresso in un altro sistema.

Truman non ha avuto scelta
Ma c’è un’altra fondamentale differenza col Grande Fratello, un elemento che rende The Truman Show una preziosa chiave di lettura per l’oggi. Se i concorrenti del GF hanno voluto programmaticamente entrare nella Casa, Truman non ha avuto scelta: ci è nato a Seahaven. Se nel corso degli anni The Big Brother ha perso appeal intellettuale (ammesso che lo abbia mai avuto) è perché quell’esperimento sociologico, ad oggi, non ha più senso. Con la nascita della televisione è partita una corsa alla celebrità senza precedenti. Essa si è presentata fin da subito come il tanto agognato palcoscenico potenzialmente globale di cui aveva bisogno l’egocentrismo umano. Guy Debord lo notò subito dipingendo la sua Società dello spettacolo fin dal lontano 1967. Sarà poi Andy Warhol a formularne icasticamente il principio-guida con la celebre frase sui 15 minuti di celebrità. Ma la televisione, come ben sanno tutti i mediologi, ha un limite fondamentale: il cosiddetto one-to-many. Si tratta di un medium unilaterale, che impone i suoi contenuti al pubblico. Arrivare a far parte di quel “one” è il sogno di chiunque. Così l’imprenditore olandese che ideò The Big Brother non fece altro che raccogliere questo grido che veniva da lontano, il grido paradossale di un mondo che si espone, che vuole mettersi in mostra, che vuole sottoporsi al giudizio dell’orwelliano Grande Fratello globale affinché la sua stessa privacy, la sua non-meritoria quotidianità non ristagni in se stessa ma si apra al mondo.

È finita l’epoca dell’esposizione? No, di certo. Ciò che è stato superato è invece il limite intrinseco al televisivo one-to-many. Il Web è infatti caratterizzato da una comunicazione espositiva del tipo many-to-many, quella per cui chiunque, senza alcuna fatica, ha la possibilità di mostrarsi al resto del mondo. Una radicalizzazione dunque dell’ideale che animava il Grande Fratello, perché ognuno di noi è al contempo attore e spettatore-giudice di ogni altro individuo nel mondo. In questa sorta di epifania collettiva garantita dai social networks, ognuno è libero di presentarsi e proporsi e nel presentarsi e proporsi. Non c’è una sovra-esposizione come in TV: lì l’immagine e il proprio Sé autentico non coincidono mai, anche lì dove – come nella villa del GF – sembrerebbe di sì. Sui social invece, proprio il carattere collettivo e per questo livellante del many-to-many fa sì che l’esposizione, l’immagine del profilo, coincida col proprio Sé. I cosiddetti millennials infatti non possono più concepire – a meno di atti eroici – una vita e un mondo che non siano immediatamente social. E questo proprio perché sono nati in un mondo del genere, sono già da sempre in questa Seahaven. Da questo punto di vista, siamo tutti Truman, siamo tutti true men, uomini che derivano il loro statuto ontologico, il loro grado di realtà, il loro valore esistenziale, dal medium digitale in cui nascono. Sono autentici, genuini, veri, pur trovandosi in un mondo falso. Rivedendo nel 2018 The Truman Show è impossibile non percepire l’assonanza e la risonanza tra i “Buongiornissimo! Kaffè?” che invadono i social e il saluto quotidiano di Truman ai vicini: “Buongiorno… e casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!”.

Come Truman Burbank, insomma, siamo uomini reali, semplicemente nati in una società iperconnessa ed esposta in vetrina. Truman, meno di noi, non ne aveva consapevolezza. Noi, meno di Truman, non abbiamo il coraggio, né la voglia, di uscirne. Neanche di illuderci che sia possibile.


Lorenzo Di Maria è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Lo Sguardo e Players.

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