illustrazione di Matteo Sarlo parole di Luciano De Fiore
A 200 anni dalla nascita, l’eredità di Karl Marx attraverso una lettera che spedisce all’amico Arnold Ruge e il terzo dei Manoscritti economico-filosofici.
Parliamo di sogni e di donne. Quindi, parliamo di Marx. L’immagine sognata di una rivoluzione possibile è il primo di due lasciti di Marx a cui desidero accennare. Il sogno di una cosa, di questo si tratta. E non per accreditare l’idea di un Marx utopista, sodale di Thomas More o di Samuel Butler. Anche grazie a Pasolini che ha intitolato così un suo romanzo, è un’immagine viva: l’essere umano, per cambiare, può non apprendere tutto dall’esterno, da fuori di sé. Cambiare, rivoluzionarsi, appartiene già alla sfera desiderante personale e può visitare ciascuno, per quanto in sogno. È anche, avrebbe detto Eduardo, una voce di dentro: sempre dell’Altro, ma di un Altro che si manifesta attraverso un’interpellazione interiore. Il sogno, infatti, significa quanto di più proprio e intimo è della soggettività. Sognare il cambiamento – scrive Marx in una famosa lettera ad Arnold Ruge – vuol dire innanzitutto pensarlo, desiderarlo nel profondo. Per cui si tratterebbe poi “soltanto” di rendere manifesto quel sogno, di acquisirlo all’autocoscienza, dice Marx. Perché non resti, appunto, semplicemente un saputo di contro ad una coscienza, ma divenga davvero qualcosa di assimilato e fatto proprio. Il passaggio al concetto implica infatti, in termini hegeliani, il suo farsi realtà. C’è dunque un dato che si offre alla soggettività in sogno. Quasi fosse qualcosa di originario. Ma l’originario non esiste, tutto è già sempre consegnato all’immaginazione e al simbolico. Da sapere a potere non vi è traduzione immediata. Un sapere si costituisce a partire dai rapporti col mondo, con l’esterno: attuandosi, cerca gli strumenti per disporre di quello stesso mondo, per in-formarlo. Quando Marx nel ’43 gli scrive, Ruge fa parte dei Giovani hegeliani, del movimento più vivo nato dalla costola dell’idealismo tedesco. Lo spirito di Hegel permea il tono della lettera. Nella prima parte, Marx annota:La filosofia si è fatta mondo [hat sich verweltlicht] e la prova più schiacciante ne è che la coscienza filosofica stessa è stata risucchiata nel tormento del conflitto non solo esteriormente, ma anche interiormente.Significa che la coscienza individuale ha introiettato la conflittualità sociale, la vive: non vi partecipa solo per la forza degli eventi, ma quella radicalità [il tormento del conflitto, lo definisce Marx] l’ha invasa, è divenuta cosa sua. Il compito della filosofia, per i giovani della Sinistra hegeliana, è dunque essenzialmente critico. La filosofia spinge per il superamento conservativo di tutto quel che ha preceduto il presente dello spirito, cioè della cultura, e nella disposizione a superare a sua volta il presente nel futuro. Il futuro – per Marx ed i suoi amici, come per la filosofia classica e l’economia classica – è la dimensione verso cui il tempo si orienta. Intimamente connessa alle altre due fasi della temporalità vettoriale, presente e passato. Realizzare la ragione, tradurre la filosofia nella prassi, farla mondo è il compito che si assumono i Giovani hegeliani. Che comporta essenzialmente esercitare la critica, la denuncia delle figure inadeguate del presente rispetto al principio dell’universalizzazione della libertà: «La ragione è sempre esistita, soltanto non sempre in forma ragionevole [vernünftigen Form] », scrive Marx, e sembra Hegel (è un complimento…). In altri termini, la razionalità del reale (cioè la realtà del mondo, con i suoi eventi ed i suoi rapporti, in quanto struttura intellegibile), esisteva già nel recente passato, solo che nelle fasi precedenti della storia quella razionalità era avvolta in forme “mistiche” che la confondevano, la nascondevano. Mitiche, dirà poi Benjamin, riprendendo proprio questo passo della lettera a Ruge. Il mito appartiene allo ieri, è la forma con la quale il passato rappresentava i propri valori, ma in qualche modo partecipa anche del presente, così che passato e presente divengono “contemporanei”, compresenti. Questa movenza del pensiero di Marx si manterrà sempre, fino alla Critica al Programma di Gotha: Marx ha sempre riposto fiducia nella forza emancipatrice del capitale, meravigliato semmai che le crisi del capitalismo fossero soprattutto crisi di sovrapproduzione. Insieme, però, è consapevole che la storia del capitale non è orientata meccanicamente al futuro: non si dà un tempo di sviluppo necessario del capitale. Il finale di questa famosa lettera-manifesto del giovane hegelismo di Marx è la parte più nota:
La riforma della coscienza consiste soltanto nel fatto che l’uomo lascia che il mondo divenga la sua coscienza interna, che l’uomo si risvegli dal sogno su se stesso, che si renda chiare le proprie stesse azioni. Il nostro intero scopo non può consistere altro – come nel caso di Feuerbach riguardo alla religione – che ogni domanda religiosa e politica venga tradotta in forma umana autocosciente. Il nostro motto deve dunque essere: riforma della coscienza non attraverso dogmi, ma attraverso l’analisi della coscienza mistica, non chiara a sé stessa, si presenti in forma religiosa o politica. Si vedrà allora che da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa, del quale gli manca solo di possedere la coscienza, per possederla veramente.Il mondo possiede – nel senso di custodisce, ha in sé – il sogno di una cosa. Il comunismo, il mondo nuovo nel quale i nostri bisogni non promuoveranno soltanto nuovi consumi e nella quale i cittadini si considereranno eguali piuttosto che competitori per beni e status sociale – ha scritto di recente Jonathan Wolff. Secondo Walter Benjamin, è decisivo a questo punto il momento del risveglio, l’Erwachen che immette il mito nel circuito della storia. Il risveglio è ciò che interrompe il mito (il mistico, dice Marx) e lo consegna all’analisi della ragione, lo immette nel circuito della storia: «Il momento del risveglio […] si manifesta come tale solo agli occhi di un’epoca ben precisa: ovvero quella in cui l’umanità, stropicciandosi gli occhi, riconosce come tale proprio quest’immagine di sogno. È in quest’attimo che lo storico si assume il compito dell’interpretazione del sogno [die Aufgabe der Traumdeutung]». Benjamin accosta quindi la funzione assolta dall’analisi del profondo a quella della storia, cui spetta pensare ogni mitologia, pensare oltre ogni immagine e rappresentazione, ma a partire da queste, raccontando la sequenza degli eventi non più alla maniera dello storicismo – come le corone di un rosario – ma come una “costellazione”. La lettera di Marx si chiude così:
Si dimostrerà che non si tratta di tirare una linea retta tra passato e futuro, bensì di portare a compimento [Vollziehung] i pensieri del passato. Si vedrà in ultimo che l’umanità non inizia un nuovo lavoro, ma porta a termine con coscienza il proprio antico lavoro.Per portare a compimento i pensieri del passato, inverando il sogno, non si percorre una linea retta. Intanto, la comprensione del mondo, e di lì poi la sua trasformazione, comporta un passaggio: secondo un modello ascetico che affonda radici fin nella cultura classica, ogni intervento sulla realtà non può iniziare che da una riforma della coscienza. Secondo Marx, questa immunizzazione soggettiva, personale deve essere conquistata attraverso un esercizio sottratto alle ipoteche religiose o provvidenzialistiche. Un finalismo emendato e sorretto dalla consapevolezza. L’umanità deve destarsi dal sogno che sta sognando su sé stessa, per inverarlo. Occorre portare a compimento quel che la cultura ha già iniziato a metabolizzare, sapendo però che non si tratta di tirare una retta dal passato al futuro. Questo arzigogolo tra il passato e il futuro sarà possibile solo grazie ad un lavoro apparentabile a quel lavoro/costruzione che Freud riserverà all’analisi. L’altra eredità della quale voglio fare un cenno si affaccia nel pensiero di Marx poco più che trentenne. E riguarda il rapporto tra i sessi. Marx ne scrive nel terzo dei Manoscritti economico-filosofici del ’44, intitolato Proprietà privata e comunismo:
Nel rapporto con la donna [nel senso di essere umano di genere femminile: Weib], in quanto essa è la preda e la serva del piacere della comunità, si esprime l’infinita degradazione in cui vive l’uomo per se stesso: infatti il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, scoperta, nel rapporto del maschio con la femmina e nel modo in cui viene inteso il rapporto immediato e naturale della specie. […] In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. Dal carattere di questo rapporto si ricava sino a qual punto l’uomo come essere appartenente ad una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo; […]. In esso si mostra sino a che punto il comportamento naturale dell’uomo sia diventato umano, oppure sino a che punto l’essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità.Il rapporto naturale e insieme culturale per eccellenza è la relazione uomo-donna. In questo contesto sociale, nel protocapitalismo, il rapporto specifico non resiste neppure nella sua “naturalezza”, dal momento che si degrada a mero rapporto predatorio maschio-femmina. L’incontro sessuale, nel capitalismo, diviene meno che naturale. E Marx invita a considerare la relazione uomo-donna la cartina di tornasole dell’intero sistema dei rapporti sociali: una società può essere giudicata e compresa sulla base della relazione uomo-donna che in essa si esprime. Essa fa capire in termini diretti (Marx dice: in modo sensibile, cioè senza bisogno dell’intermediazione culturale) se l’uomo è diventato uomo, se si è elevato oltre il dato immediato naturale della propria determinatezza sessuata. Con il che risalta il carattere progettuale e dinamico dell’essenza umana che, per divenire appunto pienamente sé stessa, ha bisogno di pratiche antropotecniche: l’uomo per Marx non è un dato, ma è un animale che cambia e diviene. Nel rapporto uomo-donna, aggiunge Marx, si può leggere sino a che punto il bisogno è divenuto bisogno antropogeno, di quanto il bisogno (Bedürfnis) – in partenza, quanto di più naturale, come la fame o la sete – sia divenuto bisogno umano. Quel “dell’uomo” (bisogno dell’uomo) è un genitivo soggettivo, per cui la frase si deve intendere così: dalla relazione uomo-donna si può comprendere quanto è cresciuto nel soggetto il desiderio dell’altro, quanto si è potenziata la sua capacità relazionale. Marx infatti dice: fino a che punto l’altro uomo in quanto uomo (e non in quanto Weib, femmina) sia diventato necessario per l’esistenza del soggetto. Quella stessa relazione uomo-donna è in grado di misurare insomma, conclude Marx, quanto l’uomo – sia pur nella propria esistenza più individuale, cioè nei suoi appetiti sessuati – sia divenuto anche allo stesso tempo Gemeinwesen, essere comunitario (comunità, come traduce Bobbio, rende equivoco il testo). La relazione uomo-donna dice insomma del grado di maturità delle relazioni sociali di una comunità; esprime il grado e il livello di interazione tra le persone misurandolo sulla base del loro desiderio dell’altro, che è desiderio di essere desiderati, cosa ben diversa dalla pulsione sessuale. Karl Marx invita a culturalizzare i rapporti tra uomini, anche di sesso diverso, pur tenendo conto della dimensione pulsionale “naturale”. Insieme, invita a cercare il futuro nella memoria, e questa nel sogno. La porta del futuro sembra chiusa, sprangata. Magari proprio questo è il momento di cercare la chiave per la casa che un tempo, individualmente e collettivamente, abbiamo sognato. Grande Marx. Un’ultima cosa: “il Moro” era alto un metro e settantacinque.
Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.