illustrazione di Chabacolors
parole di Matteo Sarlo
Inside conferma la vena creativa della Playdead. Dopo Limbo l’azienda danese torna con un altro puzzle game, una favola nera dalle atmosfere kafkiane
La categoria è puzzle game. Cioè la categoria da dizionario, quella da archivio. L’etichetta, insomma. Ma sussumere Inside sotto la categoria puzzle game è come cercare di fare entrare il mare in un bicchiere d’acqua. Perché Inside è qualcosa di più che un semplice trial and error. In effetti già da Limbo si era capito che la Playdead di Arnt Jensen, una piccola azienda indipendente con sede a Copenhagen, fosse entrata nel mondo dei giochi multipiattaforma per restarci. Per fare le dovute proporzioni: Inside sta al mondo videoludico come Lincoln nel bardo di Saunders sta alla letteratura. Cioè arriva, e spezza i reni a tutto ciò che c’è stato prima. Non si tratta nemmeno di bello/brutto, funziona/non funziona, mi piace/non mi piace. Si tratta proprio di fare qualcosa che prima non c’era. Cos’è allora Inside? Ci ho pensato a lungo e la definizione che mi sembra si avvicini di più è, al solito, quella che ancora non esiste. E cioè questa: Inside è un gioco espressionista. Ma nel senso del cinema tedesco e della letteratura di Kafka? Sì, in quel senso lì.
L’intensità narrativa
Una cosa è certa: qualsiasi rottura contiene in sé i frammenti di ciò che ha contribuito a spazzare via. Ed è vero nella misura in cui c’è un forte elemento reazionario in ogni rivoluzione. In questo senso vale la saggezza lucreziana ex nihilo nihil fit, nulla si genera dal nulla. E un antecedente che costruisce le fondamenta per poter anche solo pensare un gioco come Inside è un esclusiva Playstation: The Last of Us. La storia di un uomo e una ragazzina che devono sopravvivere in una terra post-apocalisse. Il fatto è che ci sono dei giochi che stanno al posto di qualcos’altro.
Pescando ancora tra i notissimi, esempio di questa fluidità della narrazione è Assassin’s Creed, divenuto poi film con tanto di Justin Kurzel alla regia (prima aveva girato Macbeth), Michael Fassbender e Marion Cotillard come interpreti principali.
Quindi, giochi che stanno al posto di storie. Come è noto, da alcuni anni i confini della fiction, quelli tra cinema e videogame in particolar modo, tendono a farsi sempre più sfumati (leggi Il cinema e il videogioco: Final Fantasy XV). E un elemento del genere, quello della intensità narrativa, è cruciale per un gioco come Inside. Perché quello che vivi è qualcosa di più dell’esperienza funambolica del terrore provocato dagli infetti. Quello che vivi è un viaggio nel tuo inconscio. E in più hai il joystick che vibra, il surround e l’alta definizione. Ma ci puoi giocare anche su un iPhone, poco cambia.
L’inizio
Ora immagina di prendere gli scenari distopici di The Last of Us e di metterli vicino alle prime righe del Processo di Kafka. Per inciso, queste qua: « Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato». Quello che ottieni è Inside.
La scansione della scena è questa:
- Joseph K. si sveglia e dal cuscino vede la vicina che lo fissa
- Aspetta che arrivi la cuoca della signorina Grubach per la colazione, ma questa non si presenta.
- Sente bussare alla porta
- Due funzionari lo buttano giu dal letto e lo accusano
Da quel preciso momento, dal momento dell’accusa, Joseph K non potrà che andare avanti.
Notoriamente questo è il drive che attiva Il processo, cioè il problema della causa. Joseph K. è innocente e per questo viene imputato. La causa dell’accusa? oscura.
Ora esaminiamo l’inizio di Inside:
- Un bambino rotola giù da una serie di rocce in un bosco
- Oltrepassa uno strapiombo camminando sul tronco di un albero
- Scavalca delle transenne dove vede un camion carico di persone andare via
- Viene visto da persone di una società o regime che lo vuole morto e comincia a correre
Il protagonista di Inside è un bambino che si trova gettato in un bosco. Evidentemente un avvio del genere lo imparenta con il mondo delle favole. Ma è altrettanto evidente che si tratta di un preciso genere di favole, cioè favole nere. Come, tra l’altro, sono molti racconti di Kafka: Die Verwandlung e Das Urteil ne sono gli esempi più lampanti. Quello che può fare è cercare di sopravvivere: evitare cani che lo vogliono sbranare, uomini pronti a strangolarlo, fili elettrici che calano dall’altro, infanti sirene oscure che non aspettano altro che condurlo negli abissi. La sola cosa che non può fare è tornare indietro. Come Joseph K. il bambino di Inside nasce già accusato. La sua sentenza, a morte, è stata già scritta e tutto quello che deve fare è continuare ad andare avanti. Puoi saltare, puoi spostare oggetti per risolvere rompicapo, puoi interagire con il mondo ad un solo patto, continuare ad andare avanti. Quello che allora diventa chiaro è che l’accusa di Joseph K. e quella del ragazzino senza nome è di natura onto-teologica: viviamo nel mondo ma il giudizio su di noi è stato emesso prima ancora che si possa compiere alcunché. Chi lo emetta e perché, resta un mistero. A noi non rimane che andare avanti in una grafica 2.5D.
Il gioco senza missione
In un mondo allora dove la distopia è soltanto un correlativo oggettivo del nostro inconscio, dove la vera battaglia è quella intrapsichica e dove la “condanna”, non a caso altra parola appartenente al lessico kafkiano, è un giudizio primigenio già da sempre formulato, ne segue che non può esserci scopo. E questa è un’acquisizione della letteratura kafkiana, che se incapsulata all’interno del mondo dei videogame fa saltare in aria il genere: Inside è un gioco senza missione. Si inizia la partita soltanto per restare vivi, per continuare a giocare, per lasciar sopravvivere il ragazzino e semmai, forse, trovare la causa dell’accusa.
Come ci riesce? Colori e forme
Inutile nasconderlo, la forza di Inside è la sua forma “espressiva”, cioè molto banalmente le sue forme e colori. La bianchezza della pelle del bambino, l’oscurità, le ombre che spesso non seguono il verosimile grado di inclinazione ma che si distendono e si accorciano a piacimento, il grandangolo della camera, ipoteticamente un 24 mm, pronto a diventare un 55mm o ad aprirsi a tutto campo in un 10 mm.
Il gioco si pone quindi in netta controtendenza rispetto:
1) al realismo iperdettagliato: Inside oppone alla rappresentazione 1.1 della realtà la visione di un occhio che ne rende il grado realistico trasfigurandola, cioè spostandola, quindi deformandola.
2) alla immedesimazione della VR: Inside dimostra che la più profonda e reale immedesimazione non si ottiene “in prima” ma “in terza”. Non si ottiene avvicinandosi fino al punto da divenire il personaggio ma standone lontano e osservandolo nel mondo.
La colonna sonora poi è talmente ben studiata da risultare assente. A contare è il respiro del ragazzino, il suo affanno, i clac del ferro degli oggetti vintage-postfuturistici che utilizza, il rumore delle ossa rotte, del soffocamento sott’acqua o dell’elettricità che s’innerva nel corpo. Tutto è studiato fin nei minimi dettagli e, come può accadere solo con una forma d’arte, l’orrore è redento dalla perfezione della forma.
Nessuno nasce innocente
Il plot tuttavia insinua anche un’altra cosa. Una conquista del Philip Roth del finire anni 90/inizio 2000, quello della Macchia Umana per intenderci: nessuna infanzia nasce innocente. Perché se è vero che tendiamo a dare per scontata l’innocenza del bambino, è pur vero che non abbiamo le basi per averne la certezza. E se fosse vero allora il contrario? Se la soluzione più facile all’enigma è che non c’è nessun enigma? Se quegli uomini rincorressero il bambino perché realmente colpevole?
Sì, Inside è qualcosa di più di un puzzle Game. Ci giochi, ti diverti, non smetti. Ma poi finisce. E allora, ci pensi.
Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passaggi sul vuoto (Galaad), un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia. È in pubblicazione Pro und Contra. Anders e Kafka (Asterios).