illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Marta Gambetta
A partire dal trolley problem di Philippa Ruth Foot, la lettura del 375° numero di Dylan Dog solleva l’antica questione sulla legittimità della riduzione dell’essere umano a numero.
Nell’età contemporanea i numeri hanno assunto un valore inestimabile. Tutto viene contato, tutto è quantificabile. Se si volesse andare alla ricerca del DNA della maggior parte delle informazioni che ognuno di noi intimamente considera di vitale importanza – quelle contenute nei nostri pc, nei nostri smartphone o nei nostri profili social – non si troverebbe altro che un insieme di catene numeriche. Tra gli infiniti numeri, il 375° è molto importante per tutti coloro che amano definirsi Dylaniati ovvero per i fan più accaniti del celebre fumetto della Bonelli, Dylan Dog. L’importanza di quest’albo risiede nella sceneggiatura scritta da Tiziano Sclavi, il Dio creatore dell’universo dell’Indagatore dell’incubo. Sclavi scrive e per sottolineare il valore insito in un simile evento Dylan Dog accoglie il colore. Ma c’è di più, il creatore dà vita e questa eccede lo stesso creato, straborda riflettendosi in policromatici livelli di significato.
L’albo 375 è un enigma e come ogni rompicapo che si rispetti non riesce a essere risolto in maniera univoca. Il titolo parla da solo: Nel mistero. Nella lettura delle prime pagine l’indovinello sembra di semplice soluzione, quasi delude il lettore pronto a vedere uscire dalla penna di Sclavi una meraviglia dalla rara bellezza. Un becchino che colpisce persone random per le strade di Londra, alcuni attentati, in poche parole nient’altro che la realtà in cui gran parte della popolazione globale sta mestamente imparando a vivere. D’un tratto compare Nemo. Un personaggio che è in grado di predire a Dylan gran parte degli attentati che si sarebbero verificati di lì a poco così da salvargli la pelle.
Ma la grande sinfonia di Sclavi si cristallizza come al solito in poche tavole mettendo in scena il vero enigma. «Era l’ultimo segnale» dice Nemo e Dylan preoccupato continua «Vuoi dire che è finita?» Egli risponde « Voglio dire che sarà finita, la prossima volta sarà la fine… la fine del mondo! La fine dell’universo!» « Stai scherzando?» « No sarà il 22 marzo, a mezzanotte.»
Ecco l’ultima profezia di Nemo che getta il più cupo sconforto nella mente dell’Indagatore dell’incubo. Il 22 marzo, poco prima della mezzanotte, Dylan si prepara a spendere gli ultimi attimi della vita del mondo come unico spettatore consapevole. Ma è ancora Nemo a comparire sulla scena. Egli muore, ucciso con un colpo di proiettile in un vicolo di Londra, e Dylan, che lo stringe tra le sue braccia, ascolta le sue ultime parole « dopo tutto… avevo… ragione… no…»
Nemo non è più. Una voce fuori campo illustra la scena e recita: “ il 22 marzo a mezzanotte. Quando un uomo muore, muore l’intero universo.” L’incommensurabilità di una vita. L’essere insostituibile dell’individuo, la sua unicità, un mondo che finisce tra gli infiniti mondi coesistenti.
Tutto questo mi ha riportato alla mente il vecchio dilemma, utilizzato in filosofia morale, del trolley problem. Formulato per la prima volta dalla filosofa inglese Philippa Ruth Foot. Il quesito è questo: si immagini un carrello ferroviario che, sprovvisto di freni, è in grado per mano del conducente solamente di cambiare rotaia. Sul binario percorso dal carro si trovano cinque persone legate e incapaci di muoversi. Tra il tram e le persone legate si dirama un secondo binario parallelo, sul quale è presente una persona, anch’essa legata e impossibilitata a muoversi. L’autista si trova così di fronte un’alternativa: lasciare che il carrello ferroviario prosegua la sua corsa schiantandosi contro le cinque persone o azionare lo scambio e sacrificare una sola vita.
Se fossimo degli utilitaristi con il porsi del quesito otterremmo anche la semplice soluzione: sacrificando un solo individuo otterremmo la salvezza di cinque persone, producendo un quantitativo più alto di felicità nel mondo. Ma è veramente così? Data l’unicità dell’essere umano individuale accade che una vita intera, un mondo intero, non possano essere quantificati. Il quesito non ha una soluzione certa o semplice, non ha una soluzione pienamente giusta o, potrebbe dirsi, è un problema mal posto.
Riportando tutto a una realtà nota: che ne è delle vittime di un attentato, di una strage, di un terremoto? Quali sono le strategie impiegate per deviare l’attenzione? Ciò che ci viene riportato dai media sono numeri, nomi, successi personali, ma cosa c’è al di là del volto sfigurato dal dolore di un parente o di un amico in lacrime? La perdita di un intero mondo, di un insieme di mondi non quantificabili.
La filosofa americana Cora Diamond in alcuni suoi scritti, cercando di far risaltare quell’eccedenza di significato della vita umana si riferisce ad un testo poetico di Zbigniew Herbert che voglio riportare, almeno in parte:
«il Signor Cogito
è preoccupato per un problema
della matematica applicata
le difficoltà che incontriamo
davanti a semplici operazioni aritmetiche
i bambini sono fortunati
sommano le mele
sottraggono un seme dagli altri
il conto è giusto
l’asilo nido del mondo
pulsa di un calore sicuro
misurate le particelle della materia
pesati i corpi celesti
e solo negli affari umani
prevale una negligenza riprovevole
mancanza dei dati precisi
per l’infinito della storia
gira un fantasma
il fantasma dell’indefinito
[…]
e il numero delle vittime del
bianco
rosso
marrone
-ah colori innocenti colori
-terrore
-non lo sappiamo
veramente non lo sappiamo
[…]
del Signor Cogito
perché anche quello
che succede davanti ai nostri occhi
sfugge alle cifre
perde la dimensione umana
da qualche parte deve esserci un errore
un difetto fatale degli attrezzi
o un peccato degli attrezzi
2
un paio di esempi semplici
della contabilità delle vittime
il numero preciso dei morti
in una catastrofe aerea
è facile da determinare
importante per gli eredi
e immerse nel dolore
società di assicurazioni
prendiamo l’elenco dei passeggeri
e dello staff
vicino a ogni nome
mettiamo una crocetta
un po’ più difficile
nel caso
delle catasrofi dei treni
bisogna rimettere insieme
i corpi strappati
purché nessuna testa
rimanga randagia
durante disastri
elementari
il conto
diventa
complicato
contiamo i salvati
ed il resto incognito
che non è né vivo
né definitivamente morto
viene chiamato con un nome strano
di dispersi
hanno ancora la possibilità
di ritornare da noi
dal fuoco
dall’acqua
da dentro la terra
se ritorneranno va bene
se non ritorneranno vabbé
3
adesso il Signor Cogito
sale
sul più alto trabballante
livello dell’indefinibilità
quanto è difficile trovare i nomi
di tutti quelli che sono morti
nella lotta con un potere disumano
i dati ufficiali
diminuiscono il loro numero
di nuovo senza pietà
decimano i morti
e i loro corpi spariscono
nei seminterrati spaziosi
degli enormi commissariati
i testimoni oculari
accecati con il gas
storditi con le salve di cannone
paura e disperazione
sono disposti ad esagerare
gli osservatori casuali
riportano dei numeri dubbi
accompagnati dalla vergognosa
parola circa
e in questi casi è indispensabile
l’attualità
non si può sbagliare
neanche di uno
siamo nonostante tutto
custodi di nostri fratelli
il non-sapere dei dispersi
mina la realtà del mondo
getta nell’inferno delle parvenze
la daiabolica rete di dialettica
che dice che non vi è differenza
tra il disagio e un fantasma
quindi dobbiamo sapere
contare attentamente
chiamare di nome
preparare per la strada da fare
in una ciotola di argilla
miglio semi di papavero un pettine di avorio
punte di frecce
l’anello di fede
amuleti.»
I dispersi pesano, minano la realtà di un mondo non quantificabile. I dispersi non fanno tornare i conti, anzi li rendono inutili e svelano l’immensità dell’unità umana. I dispersi sono definiti dall’eco di un nome che come una coperta troppo corta rende manifesto un tentativo di dare forma a ciò che forma non ha e non può avere. Il Nemo di Dylan Dog è quel “nessuno”, quella perdita umana, che costantemente soccombe alla follia estremista dell’essere umano – alimentata tra l’altro proprio dal suo innato desiderio di ingabbiare la realtà sotto un’unica prospettiva – ed è anche quel “tutto”, quell’universo insostituibile che definisce ogni perdita umana come la perdita di un mondo.
Se dunque ogni individuo è tutto questo, come ripensare la conta delle vittime o la quantificazione numerica squisitamente moderna? Insistere in questa direzione è forse nient’altro che un rassicurante stratagemma per voltare lo sguardo, pensando di essere invece quanto mai attenti alla responsabilità di vivere appieno la nostra stessa esistenza e le tragiche perdite che noi stessi contribuiamo a provocare.
Marta Gambetta è laureata in filosofia con una una tesi sul pensiero morale di Cora Diamond. Nel 2017 pubblica con la casa editrice L’Erudita una raccolta di poesie dal titolo L’alba al tramonto.