illustrazione di Chabacolors
parole di Matteo Sarlo
Nell’epoca dello scivolamento della cucina nel museo, degli chef stellati, della critica gastronomica estesa su larga scala, scoppia la moda All You Can Eat. Occorrerebe riscoprire una qualità che è al di là sia del fattore arte sia di quello moda. Ne parliamo con chi questa scelta ha avuto il coraggio di compierla, Shiso Restaurant.
Secondo Yujia Hu, lo chef che ha fatto impazzire l’emittente sportiva ESPN per le sushi shoes, non ci sono dubbi: il sushi ha a che fare con l’arte. È chiaro, la questione della sovrapposizione cibo/arte non è risolvibile in poche righe e non certo con la classica disgiuntiva alla facebook mi piace / non mi piace. Una cosa evidente in questo slittamento però c’è. E l’aveva già capito Jess, l’amico di Harry Burns in When Harry Met Sally: «i ristoranti per gli anni Ottanta sono ciò che il teatro era per gli anni Sessanta». Tradotto: nel passaggio dalla soddisfazione di un puro bisogno alla creazione di un’opera, e quindi nel passaggio tra consumazione ed esperienza sul versante del fruitore, la ristorazione ha subito un’ulteriore metamorfosi. È divenuta un fatto di moda. E l’elemento più di moda nel fattore ristorazione-moda è uno, ed è chiarissimo: il ristorante giapponese.
C’è però un intoppo. O per meglio dire, un paradosso. Nell’epoca di MasterChef, nell’epoca dello scivolamento della cucina nel museo, nell’epoca della degustazione contro il riempimento, dell’anima contro lo stomaco, ad andare di moda è stata la formula All You Can Eat. Una formula che abbatte i costi (di entrambi i versanti) e con una qualità, spesso, al di sotto non della soglia-arte ma di quella riempimento. In altre parole, non è che non sia a livello per consentire il passaggio, alla MasterChef, dal piatto al quadro, ma il fatto è che (spesso) non è a livello nemmeno della soglia salute.
Una scelta enigmatica, non risolvibile semplicemente collocandola all’interno dell’enorme calderone “crisi” (basterebbe andare una volta ogni due settimane ad un buon ristorante, piuttosto che tre volte a settimana ad uno pessimo). Una scelta che di non certo non è quella di Giorgia e Fabio, proprietari di Shiso, ristorante giapponese alla carta che fa sua una ricercatezza dislocata su più livelli: materie prime, confort, design. I due fratelli spiegano che questa loro attenzione per il dettaglio, questa cura per il minimo, percepibile non appena si mette piede nel locale, è una sorta di eredità.
C’è sempre stato una affezione alla alimentazione in generale. Sia io che Fabio siamo sempre stati attenti al cibo salutare. Dalla famiglia ereditiamo questa cura per il cibo.
Poi, è chiaro, dall’idea all’apertura il 23 ottobre 2016, passano circa nove mesi. «Non è stato facile – confessa Fabio. I nostri standard erano elevati e non è stato facile trovare persone valide: dalla cucina ai lavori da fare nel locale». Sì, perché qui prima c’era una pizzeria, tutt’altro mondo. Ma le cose riescono, quando hai una idea chiara e il metodo per portarla a termine. Perché qui dentro tutto dipende dal loro gusto e dalle loro scelte. Il risultato è un ambiente dove entri e percepisci quel gusto per il gesto che è tipico del Giappone. Quella bellezza per l’armonia. Quel gusto per un tempo diverso. Sulla sinistra dei quadri intagliati nel legno da cui spuntano fuori cubi più corti e cubi più lunghi. Poi quadri monocromatici sull’arancio. I due mi dicono che quei quadri sono fonoassorbenti, anche quelli basati su un sistema binario. Come a dire, niente qui dentro è privo di funzione. Tutto sta qui perché serve a qualcosa.
Ecco, idee chiare e capacità di realizzarle. Una cosa banale, ma che fa la differenza. Già perché qui da Shiso hanno trovato il modo di distinguersi persino sul packaging da asporto. Una serie di scatole e scatolette cartonate di bianco da fare invidia alla Apple. Naturalmente tutto ha un costo, perché «quelle scatole costano il 300% di più rispetto al solito».
Poi arrivano i piatti. Nighiri e sashimi, temaki e tartare. Una geometria colorata che ti induce a mangiare ogni frammento seguendo un ordine, una traiettoria precisa. Qui, ancor più che in altri ristoranti, la percepisci come una necessità.
Per gli uramaki poi, l’ordinazione è quasi obbligatoria: uramaki Java, una sorta di gunkan al sake ma rivisitato con jalapeño e spolverata di tempura. Una specialità che nasce dalla pura creatività degli chef di Shiso, seguiti da un grande maestro della cucina giapponese.
Ed è in questa intersezione tra purezza e modificazione, che si colloca Shiso.
Abbiamo cercato di rispettare la tradizione –spiega Giorgia –, cosa che in genere molti fusion non fanno, tutti incentrati sulle salse e le contaminazioni dei sapori dove ti perdi la freschezza della materia prima. Poi è chiaro, non vogliamo rimanere nemmeno solo sulla tradizione. Perché crediamo che questo sia il movimento di chi vuole stare in cucina in una certa maniera, una sorta di evoluzione. Altrimenti finisce tutto troppo velocemente.
Ad ogni boccone, ad ogni piccolo pezzetto mandato giù, quel che domina è la chiarezza di ogni sapore. Una sorta di eterea bontà. Che è poi quel che distingue il giapponese dalla cucina mediterranea. Perché se la nostra cucina punta tutto sulla composizione, sulla ricerca di quell’insieme che sia di più della somma delle parti, quella giapponese punta sul suo rovescio, la scomposizione degli elementi. L’azzeramento della sovrapposizione, la cancellazione di qualsiasi forma di Mishung.
Certo, per farlo non puoi barare. Perché tutta l’attenzione è sulla freschezza della materia prima e sulla tua capacità di valorizzarla. Ma questo, no questo per Shiso non è un problema.
Che il cibo possa essere arte, solleva non pochi problemi. Che qualcosa che si consumi e che bruci nell’hic et nunc della fruizione possa essere arte, rimane aperto. Che ci sia una forma di racconto in un piatto, è qualcosa che deve essere ancora formalizzato per bene. Ma una cosa è certa, ci sono luoghi in cui mangiare è qualcosa di più che la semplice estinzione di un bisogno. Ci sono luoghi in cui mangiare è il recupero di una diversa forma di tempo. Perché sì, ci sono dei luoghi, questi sì, che sono come dei racconti. Ecco, Shiso. Non soltanto un ristorante giapponese, ma una gran forma di racconto. Giapponese, e non.
Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passaggi sul vuoto (Galaad), un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia. È in pubblicazione Pro und Contra. Anders e Kafka (Asterios).