illustrazione di Matteo Sarlo
parole e foto di Luciano De Fiore
Secondo Mauro Bonazzi, il detto di Cratilo, di scuola eraclitea, per cui non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, giacché tutto scorre, non dovrebbe generare sgomento (“La Lettura”, 22 aprile 2017). Basta piangere per la caducità delle cose, minate dall’impermanenza. Il nostro mondo non solo è in divenire, ma è il divenire. La realtà è costantemente in modificazione. Noi stessi diveniamo ciò che siamo. Siamo i nostri ricordi; ma questi si stratificano nel tempo. Noi stessi, e ogni cosa, non siamo che un momento nel tempo.
Dinanzi ai video di Bill Viola (Rinascimento elettronico, Palazzo Strozzi, Firenze, fino al 23 luglio) il fluire del divenire, così problematico per filosofi e fisici, si circostanzia in dimensioni umane. Fin troppo umane. Le immagini del maestro indiscusso della video art testimoniano il flusso ininterrotto, ma scansionabile in momenti, della nostra vita minuta, l’unica che abbiamo. In effetti, tutto scorre.
I suoi sapienti ed accentuati slow motion dilatano il tempo, restituendo frammenti di vissuti individuali già rappresentati dalla tradizione più alta dell’arte medioevale e rinascimentale. Così un fotogramma di un incontro tra tre donne (da The Greeting, 1995, 10’22”) replica, e non cita, a distanza di quasi cinque secoli, le atmosfere, i colori ed il sogno della Visitazione del Pontormo, che gli è fisicamente accanto nella Mostra. Entrambi piuttosto citano un sentimento, il momento preciso di un incontro tra tre donne, lasciandone emergere le complesse dinamiche psicologiche ed emotive. Solo che Viola per farlo ha a disposizione 15.000 fotogrammi in dieci minuti di video, Pontormo uno soltanto.
Con la stessa logica, Adamo ed Eva di Lucas Cranach introducono senza alcuna frizione ai due splendidi video, proiettati su due lastre affiancate di granito nero, di un uomo e una donna anziani, nudi, impegnati a scrutare con scrupolo ognuno il proprio corpo, non riuscendo con ciò a impedire che in capo al filmato (Man Searching for Immortality/Woman Searching for Eternity, 2013, 18’54”) le loro immagini si ridissolvano nella materia dalla quale erano emerse.
Il fluire di questo nostro spazio-tempo così misterioso eppure così quotidiano si lascia apprezzare con ogni evidenza soprattutto nei video in cui protagonisti sono i liquidi. Come rendere espressivamente questa impermanenza fragile e insieme germinale, sgomentante eppure aperta al futuro, se non con la videoarte? «Dopo aver lavorato con i video per anni, ora percepisco il tempo come una sostanza palpabile. È il materiale più reale che conosco», dice Viola.
Infatti, il tono della mostra, e forse dell’opera stessa dell’artista newyorkese di origini italiane, è in quel The Deluge (Diluvio, 2002, 34’30”) che da solo vale il viaggio a Firenze.
Davanti alla ricostruzione del portone di un edificio urbano neoclassico, di recente restaurato, ripreso frontalmente fino al primo piano, incrociano passanti di ogni età e genere. Pian piano, un’accelerazione nei loro passi, lenta ma avvertibile; la concitata alterazione nella loro attitudine; il trasportare chi una sedia, chi un’altra suppellettile trasmette un’inquietudine che si fa ancor più tangibile quando viene accompagnata da un rumore prima ottuso, poi sempre più forte. Fin quando la discesa a precipizio per le scale degli abitanti del palazzo precede di pochi istanti una cataratta d’acqua che li raggiunge e travolge, inondando la strada. Si spalancano anche le finestre del primo piano, vomitando cascate di acqua spumeggiante. Poi, lentamente l’acqua perde di violenza e intensità, il rombo si attenua finché tutto finisce.
La sala che ospita The Deluge è introdotta da un arco dal quale incombe il Diluvio universale di Paolo Uccello e Paolo di Dono (1439). Una delle più impressionanti rappresentazioni di un passaggio archetipico della civiltà umana, tra i suoi esistenziali più angoscianti, oltre che rituale di espiazione e purificazione. A sottolineare che – come da titolo dell’esposizione – l’opera di Viola risente, come quasi tutte quelle in mostra a Palazzo Strozzi, dell’influenza di una tradizione artistica fatta propria, conosciuta e vissuta in presa diretta negli anni trascorsi a Firenze a metà dei Settanta. Con una sostanziale differenza rispetto alla raffigurazione rinascimentale della catastrofe biblica: The Deluge rappresenta un pericolo che affiora da dentro, che dalla nostra casa interiore, dal nostro più intimo ci travolge e invade la città. Il nostro edificio è inondato dall’interno: il più vicino è il più perturbante, la rovina procede dalla trascuratezza della nostra relazione con noi stessi ed è poi in grado di ferire e allagare il mondo.
Non sempre i conflitti interiori irrisolti sono alla base dei conflitti politici, né sempre li spiegano. Ma riflettiamo. In questi giorni i francesi scelgono il loro destino prossimo. Ora, la cataratta che potrebbe travolgerli non è tanto la scelta per Marine Le Pen e la Frexit: questi ne sarebbero piuttosto solo gli effetti. La ferita è interna, è nelle coscienze dei francesi, evidentemente sempre più spaventate e incolte, ritratte in una interiorità che – per quanto in apparenza ben restaurata, come l’edificio dal quale erompe il flusso del Diluvio – non sopporta il confronto con sé stessa, con le parti e le funzioni più indigeste di sé. Fin quando non si materializza il danno.
Tornando all’ambito estetico, viene in mente un’altra opera complessa, presentata da Peter Greenaway alla Biennale di Venezia del 1993: Watching water (Guardando l’acqua), un itinerario attraverso il Palazzo Pesaro degli Orfei, oggi Museo Fortuny, edificio gotico-veneziano del XV secolo. Stipato di trecentoventi dipinti, tempere, acquarelli, opere su carta, pagine illustrate di sceneggiature di film, e cinque lavori per lo schermo, in formato video, dai cortometraggi Intervals (dedicato a Venezia) e Morti nella Senna, a due dei film più noti del regista britannico, Giochi nell’ acqua e Prospero’ s Book.
Tutta quella creatività era esposta al potere dell’acqua: lavacro, abluzione, rigenerazione e insieme corruzione e potenziale cancellazione della memoria. Passeggiando per le stanze, le scale ed i saloni del Fortuny si era accompagnati da rumori liquidi: gocce stillanti, scrosci e zampillii, segnali che Venezia abitava il Palazzo e lo connotava, esponendolo alle insidie della natura e del tempo. La cultura, la memoria raccolta nelle opere del cineasta inglese si sapeva caduca, insicura.
Allo stesso modo, l’opera di Bill Viola rappresenta con grande efficacia e piena autonomia artistica la falsa coscienza di un Palazzo (con la P maiuscola, come lo scriveva Pasolini), non importa se francese o americano, comunque occidentale, fino all’ultimo impermeabile ad una crisi che però incuba da tempo e i cui effetti infine non può trattenere.
Come questa nostra Europa, terra appunto dell’occidente, incapace di assumersi il compito alto e difficile di gestire il proprio tramonto.
Luciano De Fiore è docente di Storia della filosofia contemporanea. Tra le ultime pubblicazioni La città deserta. Leggendo il Sapere assoluto nella Fenomenologia dello spirito di Hegel; Philip Roth. Fantasmi del desiderio; Anche il mare sogna. Filosofia dei Flutti.